LA CACCIA IERI E OGGI
Patrimonio di tradizioni e di passioni, la caccia è oggi una delle dimensioni che più esprimono il legame con il territorio, con l’ambiente, con le proprie radici culturali. Da sempre molto radicata nella vita quotidiana, ha dato un grande contributo all’arte, alla cultura, alla scienza, italiane ed europee. Anche per queste ragioni è maturata la consapevolezza che l’attività venatoria è un diritto di tutti e che deve essere gestita in funzione della conservazione dell’ambiente e delle risorse naturali. Affermando così la sua integrazione nel sistema dei valori e dei modelli di vita della ruralità, in una prospettiva di conservazione attiva, uso sostenibile della natura e valorizzazione delle capacità produttive.
In questa dimensione, cacciatori, agricoltori e ambientalisti emergono come attori dello stesso programma, sia pure con competenze e modalità operative diverse, e l’attività venatoria assume un carattere pieno di contributi al buon governo del territorio.
La caccia, il buio, la fame e la paura
Pratica di sopravvivenza, finalizzata all’approvvigionamento di carne e alla difesa dalle fiere, la caccia era parte determinante dell’esistenza e della cultura delle civiltà protoagricole e dei popoli nomadi. Era scontro diretto con le durezze della vita, lotta contro i pericoli e contro la farne, rischio di morte. Era paura dell’ignoto, dei silenzi insidiosi, dei rumori sconosciuti, dell’oscurità, che soltanto la scoperta del fuoco ha squarciato.
La raffigurazione delle belve o delle scene di inseguimento e di cattura assumeva un significato rituale, simbolico e propiziatorio. Le scene riprodotte all’interno di grotte, incise sulla pietra nei pressi di luoghi di culto, stilizzate su ornamenti e armi, erano mezzi per scongiurare magicamente l’ostilità della natura, oppure celebrazioni rituali della forza del cacciatore, che assumeva un significato sovrumano e metatemporale.
Spesso le stesse divinità erano rappresentate come animali, personificazioni delle forze oscure del mondo.
Nell’area mediterranea e in quella italica, il graduale passaggio all’epoca storica coincise con una progressiva trasformazione dei simboli venatori. Ai loro significati più antichi se ne sovrapposero altri, piu’ forti, legati alla mitologia greco-romana e alla simbologia della Bibbia, che collocava anche la caccia in una prospettiva di redenzione universale.
Magia e divinità in mezzo ai boschi
Fra le prede di caccia, il cinghiale e il cervo sono gli animali riprodotti più frequentemente nell’arte e nell’oreficeria dei Celti, per i quali le abilità venatorie si identificavano con il valore guerriero e, di conseguenza, con il raggiungimento dei vertici della gerarchia sociale.
Il cinghiale era identificato con il druido per la sua vita solitaria nella foresta. La femmina, circondata dai cuccioli era rappresentata mentre scavava la terra ai piedi del melo, albero dell’immortalita’. Era simbolo del potere spirituale sconfitto nella caccia da quello temporale, della vittoria dei guerrieri-cacciatori sulla casta sacerdotale, portatrice di pace e di armonia con gli elementi del mondo.
Il cervo evocava longevità e abbondanza. Era riprodotto sui talismani apotropaici in osso e corna indossati in battaglia e durante le battute.
Cernummus (“colui che ha la cima del cranio come un cervo”) era la divinità zoomorfa più importante del pantheon celtico, signore degli animali, alleato e protettore degli uomini valorosi. Da questa centralità nella cultura celtica derivarono alcuni topoi figurativi e letterari medievali di significato prettamente religioso. Nella leggenda, san Patrizio, evangelizzatore dell’Irlanda, trasformò se stesso e i suoi compagni in cervi per sfuggire alle imboscate del re pagano Loegaire. Sant’Umberto, oggi patrono dei cacciatori, mentre era impegnato nel difficile inseguimento di una preda nell’intrico di una foresta, vide apparire la croce redentrice proprio fra le corna di un cervo.
La raffigurazione di questo animale poteva assumere anche riferimenti al Cristo stesso, perché si riteneva che soffiando con le narici nelle cavità del terreno facesse uscire i serpenti, simboli del male e del peccato, e poi li uccidesse.
Cacce di contadini, di eroi e di gladiatori
Nella cultura romana classica si affermò una distinzione netta fra l’attività venatoria “quotidiana”, rivolta a cervi, cinghiali, anatidi, lepri e conigli, e le battute di cattura dei felini maggiori, degli animali esotici e delle belve più pericolose, utilizzate nei giochi circensi.
La “piccola caccia”, finalizzata all’approvvigionamento di carne o allo svago ordinario, si identificava con la dimensione dell’uomo comune, con le sue ansie e le sue soddisfazioni, nel contesto di un rapporto con l’ambiente improntato allo sfruttamento.
La “grande caccia” e i rischi della lotta con le fiere finivano, invece, per identificarsi con l’eroismo dell’uomo minacciato dalla potenza della natura, dando luogo a una serie di interconnessioni con il patrimonio della mitologia greca e mediterranea. Nella vita reale, la sfida contro le forze bestiali diventava spettacolo cruento, gioco di morte e di sangue che si consumava nella polvere delle arene costruite in tutte le città dell’impero per divertire le folle e assicurare la loro sottomissione politica. Nell’arte e nella letteratura si caricava di riferimenti al divino e alle passioni più forti dell’umanità.
Il cacciatore assumeva, di volta in volta, il ruolo dell’eroe che liberava greggi e villaggi dagli assalti delle fiere (Orione), o del guerriero che si esercitava ad usare l’arco contro i leoni per poi dimostrare il suo valore in guerra (Achille); era l’inseguitore caparbio e sognatore di prede irraggiungibili e favolose che lo conducevano attraverso regni sconosciuti (Teseo), o lo sfortunato e bellissimo amante ucciso da un cinghiale per la gelosia di un dio (Adone); diventava l’indomito lottatore contro la malvagità degli dei e delle dee (Ercole), o l’innamorato che cede la pelle del cinghiale ucciso alla bella Atalanta che l’aveva colpito per prima (Meleagro), oppure l’impudente scopritore della nudità di Diana, da lei punito nel modo più crudele (Atteone).
Lungo i secoli, immagini e miti venatori greco-romani si contaminarono e si sovrapposero, fino a confluire nel sistema di simboli del Cristianesimo, che attribuiva alla figura del cacciatore il significato della grazia e dello sforzo morale che cerca di uccidere le tentazioni e i vizi, rappresentate da lepri, leoni, istrici, orsi.
Viceversa, quando, la preda era rappresentata da un cervo o da un gallo, si riferiva alla figura di Cristo e gli arcieri che la insidiavano raffiguravano i nemici del Vangelo.
Le fatiche di Ercole
Nel Rinascimento, Ercole, il più grande eroe greco, venne raffigurato durante le lotte individuali ingaggiate con i mostri e le belve scatenati contro di lui dalla malvagità degli dei e delle dee. Le sue fatiche divennero il simbolo dello sforzo quotidiano dell’uomo contro la negatività dell’esistenza, contro tutto ciò che ostacola la piena affermazione della virtù. Figlio di uno dei tanti tradimenti di Giove (che lo concepì con la mortale Alemena), fu sempre perseguitato da Giunone, che stabilì che avrebbe potuto diventare un dio se avesse superato dieci (o dodici, a seconda delle versioni) “fatiche”, imprese eccezionali che nessuno era in grado di compiere.
Cinque di queste hanno un carattere eminentemente venatorio.
La prima fu la lotta con il leone di Nemea, considerato invincibile perché aveva la pelle invulnerabile. Ercole riuscì ad avere ragione di lui perché lo soffocò nella stretta delle sue braccia.
La seconda fatica consisté nell’uccisione dell’idra di Lerna, un mostro con una testa immortale e altre che ricrescevano dopo essere state tagliate, che venne prima bruciata e poi schiacciata sotto un masso.
Successivamente, lo sfortunato eroe inseguì per un anno intero la cerva di Cerinea, che aveva i piedi di rame e le corna d’oro, e riuscì a catturarla.
L’enorme cinghiale di Erimanto, che devastava l’Elide e l’Arcadia, fu afferrato per le quattro zampe e trascinato davanti ad Euristeo, padrone e giudice delle prove. Venne catturato vivo anche il toro di Creta, che devastava l’isola.
Infine, ad Ercole-cacciatore fu riconosciuta la sua superiorità sui mortali.
La dea, la passione, il cacciatore: il mito di Diana e Atteone
“Qual e’ color che nelle nubi appare,
se il sole attraverso le saetta, o quello
onde l’Aurora mostra l’Oriente,
tal su le guace lo mostro ‘Diana
colta in sua nudità. Quantunque chiusa
fra le compagne, nondimen sul fianco
stesse obliqua, ed il volto indietro torse;
e non avendo alcuna freccia in pugno,
con le giumelle attinse della linfa,
e il vini capo ne spruzzò, con queste
voci annunziando i danni a lui futuri:
“Or va; narra, se puoi, d’avermi vista
senza i miei veli e tacque.
Ovidio, nelle Metamorfosi, racconta così come la dea Artemide sia stata sorpresa, mentre faceva il bagno presso una grotta, dal cacciatore Atteone, che si fermò estasiato a guardarla. Piena d’ira e di vergogna, lo punì in modo orribile: lo trasformò in cervo e lo fece sbranare dai suoi stessi cani, prima fedeli compagni di tante spensierate battute.
Il mito venatorio più diffuso nella classicità e più spesso riproposto dagli artisti del Rinascimento, la presenta come divinità vergine dei boschi e degli animali selvatici, lontana da ogni lussuria, impegnata nel faticoso piacere della caccia, inteso come espressione di forza e come dominio dell’intelligenza sulla natura.
Caccia e alimentazione nel Medioevo
Nell’alto Medioevo, per gli aristocratici, ogni battuta di caccia si prolungava nel banchetto, appuntamento conviviale, ma anche rituale di potere e momento di manifestazione dei rapporti di dominio e di fedeltà reciproca.
Le prede, scuoiate e pulite sul posto, venivano arrostite, divise in grossi tagli e mangiate subito, quando ancora era forte il sapore del sangue.
A ciascuno erano assegnati posto, vivande e porzioni in base al rango e all’età: il banchetto era così una rappresentazione globale di una società fortemente gerarchizzata e basata su accordi di fedeltà e di sottomissione fra guerrieri.
Durante il pranzo i commensali davano sfogo alla stessa aggressività che esibivano nelle cacce e nelle battaglie: un profondo legame univa, nella cultura medievale germanica, l’attività venatoria, la carne e la condizione di potens bellator.
Prevaleva la tendenza a gusti forti e ben distinti, sia nella cucina aristocratica che in quella popolana e servile. Solo con la diffusione della cultura cavalleresca s’arrivò ad una progressiva elaborazione delle ricette, all’uso delle spezie e alla predilezione anche per sapori più acidi e contrastati.
I nobili accompagnavano le carni di selvaggina arrostita con salse, che, invece, mancavano completamente nei pasti dei villani. Le diete si distinguevano soprattutto per la quantità di carne, che, nel basso Medioevo, si fece via via più rara sulle mense povere, per effetto della diffusione dei privilegi nobiliari, che sottrassero la selvaggina all’uso dei più, comminando pene pesanti, fino alla condanna capitale, a chi entrava nelle riserve.
Anche a tavola, si accrebbe al massimo il divario fra il laborator, disarmato e vegetariano, e l’armato, carnivoro, che occupava il livello più alto della società. Questa sperequazione si mantenne nell’uso, ben oltre la fine del Medioevo.
La selvaggina sulle tavole dei principi e del popolo
Il Rinascimento rivoluzionò le preferenze alimentari, creando vere e proprie mode che, a partire dall’Italia, si diffusero nelle corti d’Europa attraverso i banchetti di signori e sovrani, straordinari rituali del potere, del lusso, trionfi di un’estenuante ricerca di bellezza, di equilibrio e di perfezione in cui l’aristocrazia si riconosceva e alla quale geni e artisti dedicavano le loro energie migliori. Erano i momenti di piacere più alto delle feste organizzate per visite imperiali, nozze, celebrazioni.
Si gioiva in un tripudio dei sensi, stupiti per la raffinatezza della tavola, inebriati dai profumi delle bevande, stuzzicati dai sapori pieni, ridondanti, morbidamente agrodolci, quasi sempre privi di asperità.
La selvaggina, cucinata secondo ricette complesse ed elaborate, aggiungeva i toni più forti, insoliti, marcati.
In tutto prevaleva la suntuosità: le città e i palazzi si trasformavano in quinte scenografiche; le tavole venivano imbandite con stoviglie monumentali, pezzi di oreficeria che riproducevano le fontane o le grandi sculture delle piazze; dalle portate uscivano colombe vive, esplodevano giochi di fuochi d’artificio; i colori degli stemmi di famiglia erano riprodotti sul vasellame e sulle tovaglie; festoni di fiori e frutta rispondevano a complessi simbolismi.
Le portate entravano nelle sale ed erano servite secondo un rituale sempre più rigido.
Il trancio e la distribuzione dei tagli di carne diventava una cerimonia che rispondeva a precisi significati gerarchici.
Il trinciante, il cerimoniere che assegnava le porzioni, riproduceva, come in una sequenza teatrale, il rito ancestrale della spartizione della preda fra i cacciatori che l’avevano catturata. Cervi, cinghiali e porchette erano gli animali che meglio si prestavano all’operazione.
Pavoni e fagiani erano invece serviti all’interno di grandi composizioni di piume, farciti con agrumi, fichi e canditi.
Tra Cinque e Seicento, grazie alla diffusione in tutt’Europa di trattati come Lxrte di ben cucinare di Bartolomeo Stefani, cuoco alla corte dei Gonzaga, si definirono le ricette di base della cucina moderna. Fra queste la selvaggina aveva un ruolo di primo piano.
Il gusto forte dei selvatici era stemperato, confuso e amalgamato con i sapori delle spezie con salse agrodolci.
La carne di cinghiale era cotta nel vino con brocche di garofani e cannella; la lepre era usata per preparare pasticci freddi, gelatina, fracassate. I pesci erano cotti nel vino e nel burro e poi serviti con olio, pepe e succo di limone.
Sulla tavola del popolo, semplice e rustica, prolungata fino ai giorni nostri delle ricette delle tradizioni regionali, i sapori restavano invece ben distinti. Libera dalle mode, si basava sui contrasti fra toni netti e forti, fra i quali le prede di caccia erano i più apprezzati.
Falchi e ghepardi per cacce di privilegio
Eredità affascinante e misteriosa dei cavalieri nomadi delle steppe asiatiche, la falconeria fu introdotta nel Mediterraneo dagli arabi. La sua acquisizione da parte delle aristocrazie europee medievali coincise con la nascita della cavalleria e con la tendenza a sublimare la violenza nella caccia o in competizioni spettacolari e regolamentate. Da subito fu identificata come elemento distintivo della nobiltà, fino a diventare il simbolo stesso della regalità.
La complessità dell’addestramento dei predatori richiedevano conoscenze naturalistiche elevate, abilità precise e tempi molto lunghi, facendo salire alle stelle il costo degli animali. Aquile, falchi, astori, gheppi erano destinati agli spassi dei sovrani, così come ghepardi, levrieri ed altri esemplari di specie rare o esotiche, esibiti nei palazzi e nei cortei come meraviglie degne di chi deteneva il potere universale.
Anche l’Ars venandi cum avibus di Federico II di Hoenstaufen, non è soltanto un trattato scientifico né la semplice testimonianza appassionata dell’amore dell’imperatore per la natura, ma può essere letto come un codice simbolico, in cui ad ogni predatore e ad ogni forma di caccia corrisponde un grado di perfezione e di esercizio del dominio del re sui suoi sottoposti e sugli esseri viventi.
Quando le famiglie aristocratiche acquisirono il controllo esclusivo delle venationes incluse nei loro possedimenti, escludendo le fasce sociali più basse dalla caccia alla selvaggina di pelo, adottarono la falconeria come segno del loro status, prolungandone così la pratica ben oltre l’introduzione delle armi da fuoco.
Ancora nella seconda metà del Cinquecento, il nobile bresciano Agostino Gallo riconosceva che lo schioppo era migliore del falcone nella caccia alle anitre, ma poi teorizzava la superiorità dell’aucupio con i rapaci rispetto a tutte le altre tecniche, “solenne professione: la quale per esser di spesa assai conviene a principi e gran personaggi”.
Uccellagione e caccia minuta
Quando la cattura delle grandi prede divenne privilegio e appannaggio di sovrani e nobili, che la esercitavano all’interno di grandi riserve esclusive, ai popolani e ai contadini non restarono che la caccia alla selvaggina minuta, l’uccellagione e l’aucupio. Furono elaborate tecniche complesse, che sfruttavano le caratteristiche ambientali, le direzioni di provenienza degli stormi di migratori, l’orientamento dei venti, la tipologia della vegetazione.
Rivolte soprattutto ad animali minuti, spesso laboriose, articolate in tempi lunghi di attesa e molto meno appassionanti delle grandi battute, erano per lo più forme di approvvigionamento alimentare per i ceti più poveri che integravano le loro magre diete, carenti soprattutto di carne.
In alcune zone, nelle fasce alpine e prealpine, si sono radicate a tal punto nelle tradizioni da rappresentare, ancora oggi, una parte importante del patrimonio etnografico e culturale locale. Fra i sistemi utilizzati, uno dei più poveri era il vischio, con o senza la civetta che faceva da richiamo.
Più complessi erano i sistemi di cattura che implicavano l’uso delle reti, a un panno solo per uccelli posati sul terreno o che lo sorvolino a poca altezza, a tre panni (con due a maglia larghissima esterni e uno più fitto centrale) se la posa era verticale, per prendere animali in volo.
La quagliara, in Veneto impiantata nei campi di granoturco quarantino nel periodo di metà settembre, prevedeva il ricorso a uccelli da richiamo esposti fin dalle ore della notte per attirare a terra le prede. Simile era il turdér, usato per i tordi.
Più complessi erano i roccoli, vere e proprie architetture vegetali, labirinti dai percorsi interni lunghi anche migliaia di metri.
L’età delle rivoluzioni e delle libertà: la caccia come diritto
Tra il 1650 e il 1800 l’Europa passò da 100 milioni di abitanti a 188 milioni. Si trattò di una vera e propria rivoluzione demografica, dovuta al miglioramento delle condizioni igieniche di vita, che diminuirono la mortalità infantile, allo sviluppo della medicina e ai grandi progressi dell’agricoltura. I rapporti fra insediamento e territorio e le modalità di sfruttamento delle risorse naturali cambiarono radicalmente: il fabbisogno alimentare della popolazione, raddoppiò, rendendo indispensabile l’aumento delle superfici coltivate. Contemporaneamente, la diffusione dell’industrializzazione e la progressiva estensione delle aree urbane limitarono gli spazi verdi incolti.
La rivoluzione americana, prima, e quella francese, poi, instaurarono i principi di libertà e di eguaglianza, cancellarono le disuguaglianze giuridiche, le disparità regionali e l’assolutismo regio; diffusero la piena proprietà privata, minando i grandi patrimoni aristocratici ed ecclesiastici; distrussero le istituzioni nobiliari e i privilegi feudali. Fra questi, cadde anche l’esercizio esclusivo della caccia all’interno delle riserve dei signori e dei sovrani.
I sudditi di un tempo, acquisita la dignità di cittadini, rivendicarono il diritto di disporre degli animali selvatici e dei migratori, risorse della natura e, pertanto, patrimonio di tutti.
Il libero accesso dei cacciatori a tutte le aree incolte e ai fondi privati fu individuato. allora, come la miglior risposta all’esigenza di riappropriarsi di beni alimentari che gli aristocratici, nei secoli, avevano sottratto alla fruizione comune. L’operazione di recupero era considerata tanto più importante in relazione con le necessità alimentari dei ceti più poveri, numericamente i più rilevanti.
Finì così, la lunga epoca della caccia di privilegio. Caddero in disuso la simbologia e i rituali di potere dell’arte venatoria. Disfide, feste e banchetti aristocratici restarono poco più di un ricordo. La passione per gli appostamenti e le battute non si affievolì. Anzi, si trasformò e si diffuse, sia fra i borghesi che fra i popolani, come spasso e, insieme, come forma di integrazione alimentare. Proprio il successo di forme “quotidiane” di caccia pose le premesse per i problemi di gestione dell’ambiente e di integrazione fra le diverse forme di attività economiche che hanno contraddistinto il Novecento.
I custodi della natura: cacciatori, agricoltori e ambientalisti
Oggi, dopo le contese tra coltivatori e cacciatori per l’uso e l’accesso agli spazi verdi, dopo le contrapposizioni tra chi ha mantenuto in vita le tradizioni venatorie e chi concepiva la natura come dimensione intoccabile, avulsa dalle attività umane, emerge una nuova concezione dell’ambiente.
In aree fortemente antropizzate, dove gli spazi incolti sono sottoposti a una progressiva riduzione, che minaccia le possibilità di riproduzione della selvaggina stanziale e di quella migratoria, i cacciatori stessi, nel loro interesse, sono consapevoli della necessità di limitare e regolamentare la loro attività. Si e’ aperta così la prospettiva di un’integrazione con gli agricoltori e gli ambientalisti per una tutela attiva del patrimonio naturalistico.
L’ars venandi si configura come eredità culturale, occasione di aggregazione sportiva, attività in grado di favorire un indotto economico con forti ricadute sul territorio.
Nell’ottica di una gestione integrata delle aree rurali e montane e degli spazi incolti residui, diventa occasione di valorizzazione delle specificità naturali, culturali e alimentari delle singole zone. Si inserisce nel più ampio contesto di recupero e promozione delle tradizioni locali e si presenta come aspetto qualificante di una nuova concezione della ruralità e del vivere in campagna, che vede la natura non più solo come oggetto di sfruttamento intensivo, ma come patrimonio da conservare e da fruire, in stretto rapporto con le aree urbane e con i ritmi concitati della quotidianità contemporanea.
Agriturismo, turismo venatorio, ambientale e gastronomico si configurano come strategie per un nuovo modo di godere i beni del mondo e per attivare circuiti economici positivi.
Cacciatori, agricoltori e ambientalisti, insieme con i soggetti di governo e di amministrazione, ciascuno con il proprio patrimonio di competenze e di valori, uniti in una riprogettazione dell’uso del territorio, appaiono, così, sempre più come custodi dell’ambiente del futuro.
* Tratto da.’ Cacce di ieri e di oggi / Gli eroi, i signori, i custodi della natura. Realizzato da Renata Salvarani per conto della Federazione Italiana della Caccia, in occasione di “Caccia infesta “, Cesena, 30 maggio - 2 giugno 2003.