Dato che certe affermazioni tornano in auge ogni volta che il dibattito pubblico si focalizza sul tema caccia, e nello specifico caccia al cinghiale, è doveroso analizzare nel dettaglio certe sparate spacciate per verità scientifiche.
Dopo aver cercato per anni di negare il problema dell’esubero di fauna selvatica, di fronte all’evidenza ormai incontrastabile di cinghiali che devastano cassonetti e frequentano strade e parchi giochi, gli animalisti finalmente ce l’hanno fatta a riconoscere l’esistenza di un problema numerico. Problema che hanno prontamente riversato sui loro nemici: i cacciatori, grazie ad una duplice teoria: 1) la colpa della proliferazione dei cinghiali si deve alle immissioni venatorie di cinghiali maggiormente prolifici dall’est europeo 2) in realtà la caccia non serve a nulla e anzi arriva addirittura a causare l’aumento dei cinghiali. Due semplificazioni, per non dire bufale, che sono facilmente smontabili.
Riguardo al punto 1 anche se non si può negare che dagli anni del dopoguerra all’ingresso della legge 157 (che ricordiamo ha compiuto 30 anni!) sono state fatte immissioni abbastanza discutibili per scopi venatori, non è affatto vero che l’ibridazione con esemplari non autoctoni abbia cambiato la genetica del cinghiale italiano. Finalmente uno studio di genetica molecolare (Scandura M. et al. Resilience to historical human manipulations in the genomic variation of Italian wild boar populations. Frontiers in Ecology and Evolution: 2022, 69) ha fatto chiarezza, ridimensionando questa convinzione generale, stracitata dagli animalisti. Secondo questo studio nei cinghiali italiani di oggi prevale la componente nativa della variabilità genetica rispetto alle manipolazioni di carattere antropico (immissioni, incroci e ripopolamenti), i cui effetti sono contenuti rispetto a ciò che ci si aspettava e a ciò che comunemente si è portati a pensare.
Per quanto invece attiene il punto 2, animalisti e anticaccia di ogni ordine e grado (potremmo raccogliere decine e decine di citazioni che vanno dalla Lav al Wwf ad esponenti politici e persino accademici da qualche anno a questa parte) si afferma che ci sono studi che sempre più portano a galla l’evidenza scientifica di una caccia più dannosa che utile.
Di studi che hanno analizzato l’impatto della caccia sui suidi effettivamente ce ne sono diversi. Ma le conclusioni sono ben lontane da quelle tratte per esempio da Wwf che sul tema ha tenuto addirittura un convegno lo scorso anno, presentando il quale ha scritto:
“In buona sostanza la caccia, così come il cosiddetto selecontrollo, intervenendo sulle dinamiche ecologiche della specie ottiene risultati opposti rispetto alle intenzioni: più abbattimenti e pressione sulla popolazione ci sono, più i cinghiali si riproducono (i numeri quindi aumentano anziché diminuire) mentre i gruppi familiari si destabilizzano. Di conseguenza crescono sia i danni all’agricoltura sia gli incidenti stradali. Lo dimostrano ormai numerosi studi, ma lo dimostra anche l’esperienza pratica: da anni l’emergenza cinghiali si contrasta affidandosi quasi soltanto a doppiette e carabine ma la situazione è tutt’altro che migliorata”.
Gia' su questo sito dal 2018 abbiamo affrontato questo argomento. All’epoca lo studio citato era “Massei, G., Kindberg, J., Licoppe, A., Gačić, D., Šprem, N., Kamler, J., ... & Cellina, S. (2015). Wild boar populations up, numbers of hunters down? A review of trends and implications for Europe. Pest Management Science, 71(4), 492-500”. Leggendolo si scopre che il paradosso dell’abbattimento che come una bacchetta magica moltiplica i cinghiali nient’altro è che una favoletta. In realtà lo studio dice che il tipo di caccia può contribuire insieme ad altre variabili ad accentuare la risposta compensativa rispetto alle perdite nella popolazione, ma anche che questa comunque è e rimane contrastata in larga misura proprio dalla caccia (prima causa di morte dell’ungulato). Il fatto che esista una risposta adattativa del cinghiale alle battute non dimostra affatto che queste non siano utili a contenere la specie, né che al momento risultino alternative valide a diminuirne il numero, ma soprattutto non dimostra nessuna correlazione tra l’incremento dei cinghiali e la caccia. E’ proprio questione di logica matematica: senza la caccia, banalmente, avremmo migliaia e migliaia di cinghiali in più, con nascite esponenziali e incontrastate.
Un altro studio simile, citato in questi giorni, non giunge a conclusioni diverse. The Relationship between Hunting Methods and the Sex, Age and Body Mass of Wild Boar Sus scrofa Robert Kamieniarz , Łukasz Jankowiak, Martyna Fratczak, Marek Panek, Janusz Wojtczak, Piotr Tryjanowski (2020) ha preso in esame i dati di caccia al cinghiale della Polonia, analizzando l’efficacia della stessa sulla popolazione e sollevando alcune criticità gestionali. Anche qui insomma nessuno si è sognato di avanzare correlazioni tra incremento dei cinghiali e caccia. Semmai è emerso che per ridurre il numero di individui i contenimenti dovrebbero essere pianificati meglio e garantire il mantenimento di una corretta struttura sesso-età nella popolazione di cinghiali. Viene per esempio suggerito di incentivare l’uccisione dei suinetti (leggi cuccioli per i cuori più sensibili), dato che è stato evidenziato come per questioni di convenienza economica (trofeo e carne) i cacciatori prediligono gli esemplari più grossi, lasciando campo libero alle nuove generazioni e alle femmine. C'è poi un ulteriore studio tedesco, datato 2021 (How Do Hunters Hunt Wild Boar? Survey on Wild Boar Hunting Methods in the Federal State of Lower Saxony), che ha analizzato l'efficienza di caccia al cinghiale nella Bassa Sassonia. Qui vi si conclude che "la caccia privata è importante per la gestione del cinghiale, anche se è semplicemente insufficiente", evidenziando l'importanza di un coordinamento statale nelle operazioni di contenimento della specie. Anche qui nessun accenno della caccia come causa di incremento della popolazione. E se qualcuno farà notare il parere Ispra rilasciato alla Regione Abruzzo nel 2020 contro l'ipotesi di prolungamento della caccia al cinghiale in braccata, perchè, è scritto nel parere, questa non è utile ai fini del contenimento, dobbiamo però anche citare un più recente intervento dell'esperta Ispra Barbara Franzetti, che in risposta alla tesi secondo cui la caccia ha un ruolo nella proliferazione del cinghiale, destrutturando il branco, ha dichiarato: "non c’è nessuna prova di tale tesi. Nessuno studio ha rilevato e confermato la teoria della matriarca, la femmina adulta che riuscirebbe a regolare l’estro delle altre femmine e quindi la riproduzione delle stesse", sottolineando che "i cinghiali come i topi, tendono a riprodursi massimizzando le possibilità di far nascere i piccoli in ragione della disponibilità di cibo. Quindi non solo la matriarca, ma tutte le femmine in età fertile si accoppiano anche con più maschi, proprio per massimizzare la possibilità di riprodursi".
La vera causa dell'espansione numerica dei cinghiali, per concludere, è da ricercarsi nelle trasformazioni ambientali (leggi creazione di aree interdette alla caccia) che hanno caratterizzato il nostro paese, creando vere e proprie nursery incontrollate per decenni. A questa si aggiunge quella moralità spiccia di chi crede di poter risolvere un problema del genere a parole o invocando fantomatici metodi ecologici che quasi sempre sono catture e trasferimenti (ma dove?) e sterilizzazioni più teoriche che pratiche. Il danno dei continui stop ai piani di contenimento imposti dai ricorsi animalisti e dalle alzate di scudi che finiscono per scoraggiare i cacciatori, dove lo mettiamo? A quando uno studio scientifico che metta in correlazione gli effetti della disinformazione e delle pressioni animaliste e gli squilibri faunistici? Ne uscirebbero senz’altro dati interessanti.
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