Se, prima di andare a caccia, sapessi già in anticipo cosa mi abbia riservato il destino, credo che preferirei rimanermene a letto. Sono una specialista della caccia, nel senso che, prima di partire per una qualsiasi battuta, dal fagiano all’alce, cerco sempre di organizzarmi al meglio, preparandomi al prevedibile nei minimi particolari, ma comunque il mio pensiero è sempre lo stesso: chissà cosa mi riserverà il destino, il fato?
Dopo tantissimi anni di caccia e di esperienze venatorie in generale, più o meno positive, sono arrivato alla conclusione che nella caccia c’è solo una certezza: “Che non esistono certezze!”. Infatti puoi fare tutti i preparativi che vuoi o i pronostici più ottimistici e poi ritrovarti a vivere l’imprevedibile, anzi a volte l’impensabile. Per confermare ciò voglio raccontarvi cosa mi è capitato di vivere durante una piacevolissima battuta di caccia al cinghiale, ma prima di procedere con la fedele cronaca, devo spiegarvi alcune cose.
Tanti anni fa dovetti imitare gli Indiani d’America, da molti ritenuti i migliori cacciatori del mondo. Quegli uomini indomiti, fieri e tenaci, che dalla caccia traevano tutto il loro sostentamento, al punto che, se per caso venivano feriti od erano malati, non potendo aggirarsi furtivi per i boschi, la loro esistenza e quella dell’intera famiglia era messa in grave pericolo. Per questo motivo curavano molto la salute del loro corpo. In modo particolare si preoccupavano di proteggere: i piedi, fondamentali per inseguire la selvaggina e le mani, insostituibili per lanciare le loro armi. Ma la caratteristica che distingueva quei formidabili cacciatori era un’altra: erano nomadi. Seguivano le migrazioni degli animali e non si fermavano mai a lungo in una zona dove questi, per un motivo oppure per un altro, scarseggiavano. Delle loro prede non sprecavano niente, perché ne recuperavano ogni minima parte, ma appena le catture diventavano rare o troppo difficili, caricavano i loro pochi averi e partivano alla ricerca di territori nuovi e più ricchi di selvaggina. Ed è stato proprio per questo motivo perchè anch’io, seguendo i loro insegnamenti, sono stato costretto a cercarmi nuove zone di caccia, ma il mio cuore e sempre rimasto ai Monti della Tolfa, a quelli che vedo tutti i giorni affacciandomi alla finestra di casa.
Negli ultimi trent’anni ho cacciato prevalentemente in Toscana, nella provincia di Grosseto, nel mio ATC di residenza e con la mia Squadra di Cinghialai del posto, ma ogni tanto mi piace ritornare alle origini, parlare con i vecchi amici d’infanzia nel nostro dialetto e ripercorrere insieme gli aspri sentieri percorsi in gioventù. Così, una bella domenica di fine novembre mi sono fatto convincere a partecipare ad una battuta organizzata dalla squadra di Allumiere ma, nonostante il mio entusiasmo, la giornata iniziò tutt’altro che bene.
Purtroppo (si fa per dire perché tutte le volte che una delle mie cagne partorisce è come se io diventassi nonno), prima di andare a caccia dovevo accudire i miei cani e governare una mamma con sette cuccioli, il padre, altri quattro, tutti singolarmente non è mai semplice. Specialmente di mattino presto, quando ancora non ci si vede bene e non viene neanche l’acqua corrente! Vabbé, sono i piccoli problemi della vita, non è il caso di farne una tragedia. Ma poi, arrivati ovviamente in ritardo al raduno alla casa di caccia, io e i miei due amici del cuore, Alfonso e Romano, scoprimmo con orrore che il sorteggio delle poste era già stato fatto e che a noi tre erano toccate le ultime. Praticamente saremmo stati attaccati alla bracca urlante per tutta la durata della battuta e non solo, dulcis in fundo, saremmo stati anche a vento cattivo. Cominciamo bene pensai, ci sarebbe voluto che non mi sparasse la carabina o che il mio nuovissimo Punto Rosso facesse i capricci per essere davvero a posto.
Dopo un lunghissimo tragitto in salita arrivammo in cima al monte delle Granciare, a ridosso di un vecchissimo muro fatto con delle pietre a secco in puro stile maremmano. Con il mio vecchissimo amico Sandro Papa, il Capocaccia, decidemmo come sistemarci alla meglio, così lasciammo Alfonso dove c’era più visuale, subito dopo si fermò anche Romano, mentre al sottoscritto non gli rimase altro da fare che presidiare un pezzo di muro franato con Sandro a poche decine di metri di distanza che, dopo aver dato le ultime disposizioni per radio, liberava i suoi cani e iniziava a berciare! Che bellezza…. Una bella giornata come quella, gettata al vento. Ero l’ultima posta, praticamente attaccato ai bracchieri che strillano e pure col vento sulla nuca. In pratica la battuta non era neanche iniziata che io, Alfonso e mio cugino Romano eravamo già esclusi dalla cacciata.
Ma con chi avresti voluto prendertela? Sperai con tutto il cuore che almeno i cani avessero trovato subito qualcosa per gustarmi almeno una bella canizza. Per come la vedo io, sarebbe andata più che bene anche così. Comunque, quasi con rassegnazione, sistemai il mio bel seggiolino a treppiedi, controllai che il punto rosso fosse a posto, cercai di individuare degli ipotetici passi per avere una certa idea da dove sarebbero “potuti arrivare” i cinghiali ed infine camerai una 30.06 ricaricata con palla Nosler Ballistic Tip da 165 grani nella mia amata BAR Long Trac Composite. Poi cercai d’individuare dov’erano mio cugino Romano e Sandro, grazie all’alta visibilità dei loro indumenti. In battuta la prudenza deve MAI essere considerata troppa.
Avuta la certezza che tutto fosse a posto mi concessi un bel cornetto alla crema. Cosa volete? La vita è già tanto amara, perché privarsi dei piccoli piaceri di gola? Fortunatamente i cani, sciolti sopra le tracce fresche, non tardarono a scovare i cinghiali, arrivarono sulle lestre aggressivi e compatti, mettendo subito in movimento un buon numero di animali senza che si fossero fatti abbaiare un solo minuto a fermo. A malincuore li sentii latrare verso le poste “basse”, dove, da lì a poco, se tutto fosse andato per il verso giusto, avremmo dovuto sentire anche i primi spari. Ma come dice il saggio? “a caccia non esistono certezze!” Infatti, in men che non si dica, la canizza compì un ampio cerco per tornare indietro, praticamente verso di noi, o meglio verso la bracca, che presa alla sprovvista non riuscì a pararla, facendo uscire cinghiali e cani dalla battuta. Ho sempre definito il cinghiale come il vero e indiscusso RE della Macchia, perché nel fitto del bosco fa davvero quel che vuole. E’ un animale forte, scaltrissimo, intelligentissimo e soprattutto imprevedibile. In pochi minuti, quella che si preannunciava essere una bella battuta s’era invece trasformata in un vero disastro. Sentivo i cani dietro di me, ma impercettibilmente….. mi sembrò che fossero in avvicinamento, che stessero rientrando! Ora la situazione s’era capovolta, le nostre poste da pessime erano diventate le migliori dello schieramento!
Il primo a tirare fui proprio io, abbattendo un porcastro di una venticinquina di chili, poi tirò Romano ed anche Alfonso, colpendo rispettivamente un altro rosso ed una bella scrofa. Non feci neanche in tempo a rimpiazzare i due colpi sparati, che vidi il fratello del cinghiale abbattuto affacciarsi furtivo sul muro diroccato. L’abbattei con un preciso colpo al collo. E due! Vai un po’ a raccontarle certe azioni di caccia! Non era trascorsa neanche un’ora dall’inizio della battuta, che noi tre, gli ultimi arrivati, le ultime poste messe a vento sfavorevole, contro ogni previsione avevamo abbattuto già quattro cinghiali!
E il meglio doveva ancora venire. I bracchieri erano così vicini che per recuperare i cani impiegarono pochissimi minuti. “Te l’avevo detto che questo erano poste buone” disse Sandro facendomi l’occhiolino. “Come no. Solo che non sono venuti come avrebbero dovuto!”. Gli risposi sorridendo.
Quando hai già sparato un colpo, o meglio ancora due ed anche i tuoi amici più cari hanno avuto l’occasione di divertirsi, sei molto, ma molto più rilassato. Davvero! Ipotizzai di godermi il resto della battuta seduto sul mio traballante seggiolino ammirando le prede abbattute che, se pur “modeste”, erano comunque arrivate come il cacio sui maccheroni. Nel monte delle Granciare le canizze imperversavano e non mancavano neanche gli spari. Finalmente tutto girava per il verso giusto e se ognuno avesse fatto il proprio dovere, alla fine i risultati ci sarebbero stati.
Ero tutto preso con le mie riflessioni filosofiche che una “raffica breve” di tre colpi tirata sotto di me mi fece sussultare. Doveva essere stato Mauro a sparare, la posta prima di Alfonso, e quegli spari mi fecero scattare il campanellino d’allarme. Non è che per caso a qualche cinghiale, magari più furbo degli altri, gli era venuta la voglia di forzare l’accerchiamento nel punto più debole della battuta, dove sono i battitori a parare? Io ero più o meno schierato con loro, ma armato con una carabina semiautomatica potente, affidabile e perfettamente tarata e non con un “tronchino” sovrapposto caricato a salve!
Lentamente mi alzai dal seggiolino e stetti pronto ad ogni evenienza, Come al solito furono le spie alate del bosco, le ghiandaie e i merli, ad avvisarmi che qualcosa nel folto stava venendo verso di me. In quel punto la macchia era fittissima così aspettai già imbracciato verso l’unico spazio aperto nella vegetazione. Finalmente udii il familiare rumore provocato da un grosso selvatico e subito dopo vidi apparire nel varco tra due cespugli una testa irsuta. Il colpo partì subito, quasi da solo, appena il Red Dot si sovrappose a quella sagoma scura, ma il risultato non fu quello sperato. O almeno non fu uno degli esiti più comuni che abitualmente seguono lo sparo. Sappiamo tutti che se il colpo va a segno, novanta volte su cento senti il selvatico cadere, magari scalciare, a volte anche grugnire o rigirarsi su se stesso, se invece il colpo va a vuoto, quasi sempre è seguito dal rumore provocato dalla fuga vertiginosa del selvatico. Io, al contrario, non udii niente. Aspettai qualche secondo poi mi feci coraggio ed andai a vedere. Il cinghiale era là…. letteralmente fulminato sul posto! Involontariamente lo avevo centrato perfettamente tra la testa ed il collo abbattendolo all’istante. Ed era davvero enorme! Ottimisticamente lo stimai sui centoquaranta chili di peso, ma centoventi doveva farli davvero tutti. Era un grosso, poderoso, astutissimo solengo con delle difese eccezionali, che aveva deciso di forzare l’accerchiamento nel punto che, secondo lui, era il meno pericoloso, dove doveva esserci soltanto la bracca a gridare, invece aveva trovato me. Avete capito il furbacchione? Il vecchio cinghiale aveva preferito andare verso una folla urlante di cacciatori piuttosto che dirigersi in un’infida zona silenziosa e come si fa a non avere un riverente rispetto per un selvatico così?
Verso l’ora di pranzo Sandro decretò la fine della battuta, per procedere con calma al recupero dei cani e dei cinghiali abbattuti, ma i monti della Tolfa non sono come quelli toscani…. Per descrivere l’asprezza del territorio è sufficiente che vi racconti una vecchia storia. Si dice che tanti anni fa, ad un allumierasco sotto Naja, chiesero da dove provenisse e lui in dialetto stretto rispose: “dal paese dove i somari mangiano i sassi”! Non potete immaginare che razza di mazzo ci toccò fare per portare giù dal monte i cinghiali abbattuti, in particolare il mio più grosso. L’unica cosa che raccomandai ai miei vecchi amici maremmani prima di scendere a valle fu di avere un occhio di riguardo per il trofeo. Perché ne ho visti danneggiare davvero troppi durante tanti lunghi e laboriosi recuperi. Per fortuna quel giorno, che non era iniziato proprio benissimo, finì invece nel migliore dei modi,”coi piedi sotto il tavolino”, a brindare col vino rosso novello alla salute della ritrovata, vecchia compagnia!
Marco Benecchi