“Adesso non conta più dir balle!”. E’ quel che disse Franco, il mio amico friulano, quando alle 4,30 di un afosissimo mattino di fine settembre parcheggiammo il fuoristrada sulla provinciale per Forni Avoltri e cominciammo a salire carichi come muli di armi e di bagagli. Franco per ultimo agganciò Lea, la sua brava e bella hannoveriana, ad un funzionale guinzaglio di cuoio fiore che gli pendeva dalla tracolla. Un medico un giorno mi confidò che per regolare la respirazione e il battito cardiaco bisogna camminare almeno mezz’ora, ma senza fermarsi mai, altrimenti non vale. Dopo una decina di minuti che ci inerpicavamo per uno stretto sentiero montano mi sembrava di avere del vetro tritato nei polmoni, e meno male che non fumo! La caccia in alta montagna al camoscio è sicuramente la caccia più bella che esista, ma anche la più dura, specialmente per chi è nato in pianura e che non è proprio al top della forma fisica. Di solito ho sempre cacciato il camoscio in novembre, col fresco e bene allenato, ma affrontare una montagna come il monte Ombladet con poche uscite alle spalle e con una temperatura estiva è stata un’impresa veramente al limite delle mie possibilità. Comunque, la mia ferrea forza di volontà e l’intenzione di non fare brutte figure mi costrinse a stringere i denti per lunghissime e durissime ore durante le quali bevvi litri d’acqua e dovetti cambiarmi diverse T-Shirt.
Arrivammo a quota duemila che stava sorgendo il sole. Franco impugnò subito il suo 8 x 50, prese a binocolare e dopo qualche minuto fu in grado di indicarmi ben cinque caprioli, tre cervi, un gallo forcello e una colonia di marmotte, ma dei tanto amati camosci nessuna traccia. Il panorama che ci circondava era di una bellezza mozzafiato, indescrivibile, e può capirmi soltanto chi ha avuto la fortuna di cacciare in prima mattina tra le nostre splendide montagne. Il cielo sembrava cobalto e la visione di quei boschi, di quelle immense praterie montane e delle dolomiti (che a quell’ora avevano assunto la caratteristica tonalità rosea), mi provocò un brivido di piacere. Franco mi riportò alla realtà sussurrandomi che, per forza di cose, avremmo dovuto continuare immediatamente la cerca. Diedi per scontato che in quella valletta di camosci non ne avremmo avvistati, così mi rassegnai a riprendere il cammino.
Procedevamo lentamente, per osservare ma anche per non affaticarci troppo e per non sudare. Ogni tanto, ad intervalli più o meno regolari, concentravamo meglio la nostra attenzione verso le usuali zone di pastura, ma non ci fermavamo mai più di pochi minuti. Ero poco allenato, quindi camminare con zaino e carabina in spalla e 8 x 42 al collo era tutt’altro che piacevole, ma purtroppo in montagna esiste una regola: meno animali s’avvistano più bisogna camminare per andare a cercarli.
Ad un tratto Franco s’immobilizzò e mi fece segno di raggiungerlo stando basso e cauto. Aggirammo un costone e davanti a noi, in bella mostra come fosse una cartolina, c’era un magnifico maschio di capriolo, un grande Sechser come lo chiamò giustamente il mio accompagnatore. “Marco, tu sei autorizzato a prelevare un solo capo e quel capriolo rientra nei piani di abbattimento, ma se lo abbatti poi dobbiamo riscendere a valle”. Devo ammettere d’essere stato tentato per un momento, ma non più di tanto. Di caprioli simili ne abbiamo molti anche in Maremma, quindi ritenni che sarebbe stato un sacrilegio sacrificare quell’uscita. Ancora una volta rifiutai “uovo per sperare nella gallina”! E poi mi venne anche il sospetto che Franco conoscesse già quel magnifico capriolo, perché fu contentissimo della mia decisione di risparmiarlo.
Intanto il tempo scorreva in maniera surreale, avevo difficoltà a capire se stavamo osservando l’animale da pochi minuti oppure da mezz’ora, quando un colpo sparato alla nostra destra ci fece sussultare. Un minuto dopo vibrò un cellulare. Franco rispose, ascoltò in silenzio e subito gli s’illuminarono gli occhi. Parlottò ancora per qualche secondo e poi mi raccontò cos’era accaduto. Francesco, un nostro comune amico che stava cacciando nella valle vicina, aveva abbattuto un fusone di cervo. Non era neanche trascorsa mezz’ora dal sorgere del sole che un fortunato, ma soprattutto valido cacciatore era riuscito a guadagnarsi una prestigiosa preda. A quel punto, non lo nego, fui un po’ invidioso dell’abbattimento, non tanto perché io non avevo avuto l’occasione di sparare, quanto per la paura di non riuscire ad avvistare il capo giusto nel poco tempo che avevamo a nostra disposizione. Andammo avanti con la cerca ancora per qualche ora con un sole implacabile e con una temperatura torrida più estiva che autunnale. Ero demoralizzato e stanchissimo, ma tutto sommato fiducioso. Com’è vecchia usanza tra i cacciatori di montagna, chiamammo Francesco e ci offrimmo di aiutarlo per smacchiare il grosso animale e per portarlo in una zona più comoda, dove sarebbe stato agevole caricarlo sul fuoristrada. Una volta raggiunto, ne approfittammo per congratularci con lui dell’abbattimento con un caloroso “Weidmannsheil”, per sdrammatizzare sulla nostra battuta e per scattare qualche bella foto in allegra compagnia. Francesco ci raccontò di aver avvistato da una certa distanza un piccolo branco di cervi e mentre stava decidendo quale fosse la strategia migliore per procedere con un avvicinamento, i selvatici erano partiti di corsa proprio verso la sua direzione. L’amico cacciatore aveva avuto appena il tempo d’imbracciare la sua Blaser R 93 Off Road calibro 300 Winchester Magnum e di colpire in piena corsa il capo che gli interessava. Come ogni bella cacciata che si rispetti, anche la nostra terminò davanti ad un bel piatto di pasta calda e una birra fresca. E non so se li avessimo gustati in casa, avessero avuto lo stesso meraviglioso sapore!Il giorno dopo il copione si ripeté, ma in una valle diversa. Solita partenza a notte fonda per essere in quota poco prima dell’alba.
Verso le 6,40 avvistammo subito due femmine di cervo con i rispettivi vitelli e una capriola con due piccoli. La zona era sempre magnifica ma, al colmo dei colmi, anche lì non vedemmo neanche l’ombra di un camoscio. A Franco non pareva vero che in quell’anfiteatro naturale d’insolita bellezza, particolarmente vocato per la caccia al camoscio, non ci fosse nessuna presenza dei tanto agognati rupicapra. Binocolammo insistentemente a destra e a manca come automi, ma nonostante tutti i nostri sforzi non riuscimmo ad avvistare nient’altro. Come dice il proverbio? A mali estremi, estremi rimedi. Così, gambe e zaini in spalla, riprendemmo a salire sempre più in alto, con la fatica che andava a sommarsi a quella accumulata il giorno prima. Franco, anche se non voleva darlo a vedere, era molto più preoccupato di me. Evidentemente la sua innata ospitalità lo stava imbarazzando tantissimo, non si dava pace che ancora non eravamo riusciti ad avvistare neanche un capo. Durante una breve sosta, essenziale per riprendere fiato e per bere, ipotizzammo che gli animali avessero scelto una zona più fresca e più ricca di erba giovane a causa dell’insolito caldo, ed io dovetti tribolare non poco per convincere il mio carissimo amico friulano che per me la caccia era ugualmente bellissima. In gioventù sono stato uno “sparatore della domenica” soltanto per i primi quattro–cinque anni della mia lunghissima carriera di cacciatore, poi ho capito quali erano i veri valori della caccia. Infatti, come ho sostenuto in molte altre occasioni, ho sempre preferito alzare due volte lo stesso fagiano senza mai riuscire a tirargli, piuttosto che abbattere quindici tordi! La caccia al camoscio è la mia passione e la mia croce, ma non per questo ne avrei fatto una malattia se non fossimo riusciti ad abbatterne uno. Anzi, più che la caccia al re delle vette è forse l’amore che ho per la montagna a spingermi una o due volte l’anno ad imbracciare la mia Weatherby Ultralight calibro 270 WM sulle montagne di mezza Europa con una centotrenta grani SP in canna.
Devo ammettere che la riserva di Forni Avoltri è ricchissima di animali, perché avvistammo un gran numero di selvatici in continuazione, compreso un volo di grossi uccelli che da lontano mi sembrarono cotorni. Tramite Franco avevo ricevuto un invito per abbattere una femmina adulta di camoscio oppure un giovane Jearhling, ma verso le dieci del mattino ci arrivò una telefonata durante la quale il direttore della riserva, venuto a conoscenza dell’insolita situazione, ci autorizzava a prelevare un camoscio a nostra scelta, purché rientrasse nei canoni selettivi. Rimasi quasi commosso da tutta quell’attenzione e da tutte quelle premure. Non ho mai posseduto un altimetro, ma stando alle indicazioni dell’amico Franco, dovevamo trovarci a quota 2100–2200, con delle condizioni metereologiche eccezionali. In vetta faceva talmente freddo che dovetti addirittura tirar fuori il cappuccio dal mio giaccone, mentre da fondovalle saliva una calura come se provenisse da un camino. Mentre Franco continuava imperterrito a ferirsi gli occhi con gli oculari del suo binocolo, io respiravo avido quell’aria meravigliosa e m’inebriavo di paesaggi stupendi. Sono sicuro che in una situazione simile un mio amico, particolarmente religioso, avrebbe detto: “Grazie Dio mio per avermi regalato una giornata così”. Di camosci non ne abbiamo visti? E allora? Pazienza, sarà per la prossima volta, ma aver avuto la possibilità e la forza di scalare ancora le montagne è sempre fonte di grandissima soddisfazione. Di quell’indimenticabile gita in Friuli conservo gelosamente il ricordo della bellezza delle zone, della maestosità dei monti, ma soprattutto della totale e insuperabile ospitalità della gente che la abita. Proprio per questo voglio cogliere l’occasione per ringraziare Franco, sua moglie Rosalba, i suoi simpatici figli e l’amico Francesco per avermi gratificato con la loro preziosissima e sincera amicizia. Spero di rivedere tutti molto presto e magari, chissà se per l’occasione il monte Ombladet si dimostrerà più generoso con un modesto cacciatore di camosci tanto amante della montagna?.
Marco Benecchi