Monti di Cerveteri, una fredda domenica di dicembre, macchia delle “Cerchiare”, una delle più belle zone di caccia al cinghiale che si possano immaginare. Centinaia e centinaia di ettari di macchia mediterranea, quella caratteristica, fittissima ed impenetrabile fatta di lentischio, di corbezzolo, di cerro, di ornello, di crognolo, di leccio, di olivo selvatico, ma anche di querce e sughere secolari, divenute, a ragione, un vero e proprio patrimonio naturale. Questo è il famoso “forteto”, il regno incontrastato del cinghiale maremmano, dove, se si vuole cacciarlo con un minimo di successo, occorre organizzare delle grandi battute con centinaia di cacciatori ed almeno il doppio di bravi e coraggiosissimi cani scovatori. Il presidente della Società che gestisce tutte le Macchie di Cerveteri mi aveva chiesto se volevo partecipare alla battuta di quel giorno ed io ero stato felicissimo di accettare il suo invito per due motivi: primo perché, come già detto, la zona è meravigliosa e ricca di animali, secondo perché tutti i cervetrani sono dei cari amici con i quali caccio spesso e volentieri da una vita. Il bello delle grandi cacciarelle maremmane, di quelle organizzate tradizionalmente e come si deve, con cipiglio e largo anticipo, è che si ha sempre l’occasione di rivedere moltissime persone che magari non incontravi da anni. Ed è anche per questo motivo che di solito l’appuntamento alla casa di caccia è fissato abbastanza presto, non più tardi delle otto del mattino. Poi, si sa, non si parte mai prima delle dieci–dieci e mezza e in quelle due ore, oltre che registrare le licenze, bere un caffè e sorteggiare le poste, si scambiano i soliti convenevoli fatti d’informazioni sui familiari, di racconti recenti e passati, di scherzi, di sfottò e … di consulenze!
Infatti è molto raro che un nutrito numero di partecipanti non mi chieda consigli e pareri su quali sono, secondo me, le armi migliori, i calibri più prestanti e le ottiche più adeguate per cacciare il cinghiale in battuta. Io cerco sempre di dare un contributo, faccio quel che posso, ma poi inesorabilmente vedo che pochi seguono i miei consigli, mentre molti altri continuano a fare di testa loro. E’o no il bello della democrazia? Anni addietro mi adiravo (per non dire peggio) come una bestia quando vedevo girare nelle mani di poste e canai decine di carabine semiautomatiche calibro 300 e 338 Winchester Magnum, ora che ci si è aggiunto anche il 9,3 x 62 e addirittura il 9,3 x 64, non me la prendo più di tanto. Credo che, nel giro di qualche anno, le qualità “safaristiche” del grande calibro europeo, lo faranno diventare il calibro d’elezione del cinghialaio italiano. Cercare di convincere chi lo usa ad adoperare qualcosa di meno potente x i porcastri nostrani è praticamente come una guerra contro i mulini a vento, impossibile da vincere. Il motto di “grosso è bello” non passerà mai di moda. E la stessa cosa vale anche per quanto riguarda il peso delle palle: 180–200 grani per il 30.06 ed il 308, 220 grani per i 300 WM e così via. Perdonate lo sfogo e torniamo a noi.
Nelle macchie di Cerveteri, indipendentemente dalla bravura o dall’estrazione sociale del cacciatore, le poste vengono sempre sorteggiate, ma c’è di bello che puoi sceglierti i vicini di posta. Cosa positivissima, specialmente di questi tempi in cui tutti vanno a caccia sempre meno, ma hanno invece il grilletto molto facile. Io m’infilai tra Daniele, un giovane cacciatore da poco stregato anch’esso dalla caccia in battuta, e Marco, mio omonimo, che mi ha onorato di farmi fare da padrino al suo meraviglioso figlioletto Thomas. Marco, cacciatore veterano e nativo di quelle zone, mi confidò che Daniele era già stato “battezzato”, avendo abbattuto qualche cinghiale, ma che ancora non aveva una grande esperienza e che forse era ancora un po’ troppo entusiasta. Non sarebbe stato male se durante lo svolgersi della battuta gli avessi dato un’occhiata!
Il tempo era bellissimo, ma le previsioni lo davano in peggioramento. In inverno è incredibile con quanta rapidità possano cambiare le condizioni meteorologiche. Come in un batter d’occhio un cielo terso, bellissimo e sgombero di nuvole si può trasformare in una cappa plumbea e minacciosa. Fu proprio quel che accadde quel giorno alle Cerchiare. Mentre oziavamo in attesa che le mute scovassero i selvatici c’era un sole meraviglioso, ma come partirono le prime canizze cominciò a piovere. Una pioggia leggera ma persistente, di quelle che ti bagnano fino alle ossa senza che tu quasi te ne accorga. A me poi, la pioggia piace talmente tanto che abiterei volentieri nel deserto del Kalahari perché, oltre a non piacermi, come credo non piaccia a nessuno stare all’addiaccio bagnato, ho troppa cura per le mie armi e per la mia attrezzatura per vederli bagnati e rovinati dall’acqua. Comunque, pioggia o non pioggia, quando la bracca se fa il mazzo per scovare e per cercare di mandarci contro i selvatici, è nostro dovere di postaioli svolgere bene il nostro lavoro. Così, arma sempre imbracciata e occhi ed orecchie sempre attenti. Le canizze erano lontane, ma non è la prima volta che un bel solengo tenti di forzare la linea delle poste quando in molti non hanno ancora caricato le armi. I cinghiali non sono degli animali stupidi, al contrario. Specialmente quelli che sono nati in un territorio dove bracconieri, tagliatori di boschi e contadini non gli danno tregua tutto l’anno. Lo capiscono immediatamente quando l’aria si fa pesante, sicuramente molto tempo prima del suono del corno.
M’ero appena accertato di cosa stesse facendo Daniele che il mio sguardo venne catturato da un movimento insolito all’interno del bosco. Vedevo una cosa rossastra muoversi su e giù lentamente e mi venne da pensare che fosse un pettirosso che faceva qualcosa di strano. Poi, guardando meglio, vidi (o mi sembrò di vedere, perché ancora oggi non sono sicuro di quel che vidi) il grifo di un cinghiale che annusava l’aria. In quel momento ero quasi certo che fosse il muso di un animale, ma non ebbi il coraggio di tentare un tiro azzardato attraverso la vegetazione. E se invece fosse stato il muso di un cane? O, peggio ancora, la mano di un bracchiere poco pratico? Meglio che vadano via mille cinghiali piuttosto che accada una tragedia. Il giorno prima, un mio vicino di posta aveva ucciso un cane per sbaglio, scambiandolo per un cinghiale, come se il re della macchia possa andare in giro per i boschi con al collo un collare arancione fosforescente. Non sparai al “musetto” e questo scomparve silenzioso com’era apparso. Fui contento della mia scelta e non mi pentii della decisione presa, sicuramente avrei avuto modo e occasione di rifarmi.
Sentimmo i primi spari e qualcuno anche molto vicino. La battuta era al culmine, nonostante la pioggia ed il freddo. Anche se è completamente impermeabile cercavo di coprire alla bene e meglio il mio Docter, ma senza risultato. Come un misero pivello ottimista mi ero lasciato ingannare dal bel tempo mattutino ed avevo lasciato l’incerata e l’ombrello in macchina. Ne stavo pagando le conseguenze e, a differenza di quando partecipo ad una battuta con il bel tempo, quando non oso guardare l’orologio per paura che sia imminente il suono della tromba di fine cacciata, quel giorno era l’inverso. Non vedevo l’ora che il “Sor Francesco” desse fiato al corno. Avevo anche fame e siccome eravamo sotto Natale, se ci fossimo sbrigati presto, ne avrei approfittato per portare la mia gentile consorte a fare gli ultimi regali.
Mai dire Mai! Sotto di noi arrivò una canizza che era una gioia sia per le orecchie sia per il cuore, e puntava dritta verso di noi. Imbracciai la mia fedele, mitica, affidabilissima, insuperabile Hk 770 K calibro 308, controllai che il vetrino del Docter fosse abbastanza asciutto, guardai a destra e a sinistra per accertarmi che anche i miei vicini di posta stessero facendo lo stesso ed attesi speranzoso. Fu Daniele quello ad essere baciato dalla dea bendata, perché sparò rapidissimo (secondo me troppo rapido!) tre colpi e poi prese a strillare: “Viva Sant’Antonio, Viva Sant’Antonio!”. Mi venne talmente da ridere che per poco non mi feci buggerare anch’io. Tra me e Daniele vidi un grosso cinghiale che stava attraversando una breve larga prima di guadagnare il folto. Gli tirai due palle (una Hornady SST e una Rws TIG sempre da 150 grani) e fortunatamente la vidi piantare il grifo in terra e ruzzolare come una lepre prima che s’inoltrasse nella macchia. “A Daniè, prima di gridare Viva Sant’Antonio, anche se si dice Viva Maria, accertati che il cinghiale sia morto!” dissi al simpatico amico. Daniele nella concitazione del momento non s’era accorto che la grossa scrofa l’aveva soltanto ferita, rompendogli una zampa anteriore all’altezza del piede e procurandogli un profondo solco sotto la gola che sicuramente sarebbe risultato mortale, ma non in tempi brevi. Di certo non avrebbe impedito al grosso e resistente animale di percorrere moltissimi metri prima di essere recuperato. Sono ormai lontani i tempi di quando mi preoccupavo di accertare con esattezza di chi fosse la paternità dell’abbattimento. Oggi invece mi preme più cercare di non fare feriti e di non lasciare che qualche cinghiale attraversi la linea delle poste portandosi dietro una muta intera di cani, poi chi lo prende lo prende. Non dobbiamo dimenticare che il tableau finale di una grande battuta è sempre merito dell’intera squadra, nessuno escluso. Quando ripenso a quel giorno mi viene ancora da ridere. Avrei ammesso Viva Santa Diana, Viva Sant’Umberto, ma Viva Sant’Antonio che cavolo centrava?
Marco Benecchi