Ogni volta che ho il piacere di sentire al telefono il mio carissimo amico Frédérick Colombiè, l’Amministratore Delegato della Browning–Winchester Europa, lui esordisce sempre allo stesso modo: “Come sta il mio amico Marco, Il detentore del record di abbattimenti durante una battuta di caccia al cinghiale?” Lo dice per scherzare, lo so, ma a forza di sentirlo dire mi è venuto un piccolo dubbio... Non è che per caso il buon Frédérick ha ragione? In effetti ho abbattuto 7 cinghiali con 9 colpi in…diciamo 20–30 secondi, forse anche meno! Così mi sono permesso di “riproporre” questo vecchio racconto per fare una specie d’indagine con i miei amici lettori, per sapere se conoscono qualcuno che abbia fatto una cosa simile negli anni passati… quando ancora i caricatori maggiorati erano consentiti.. Riporto la cronaca fedelissima di cosa accadde quel giorno.. Il giorno che entrai nella leggenda!
A cinquantaquattro anni suonati, dopo aver praticato la caccia al cinghiale per quasi quaranta, credevo ormai di aver visto di tutto. Dopo mezzo secolo di “cacciarelle”ero convinto di aver vissuto ogni esperienza possibile o immaginabile, dal cacciare i grossi solenghi con i cani da ferma agli abbattimenti in battuta a lunghissima distanza. Invece mi sbagliavo. Perché quello che accadde in quell’uggioso, fantastico giorno di novembre, né io né nessun altro avremmo mai potuto prevederlo e mi domando se a qualcun altro è capitato di vivere un’avventura simile. L’episodio che mi appresto a raccontarvi è talmente incredibile, che mi sono dovuto fare coraggio per scriverlo. E se non fosse stato per i testimoni che hanno assistito alla fulminea scena in “diretta”, non avrei avuto l’ardire di raccontarlo per il timore di essere preso per uno sbruffone raccontaballe. Era da parecchio che Marchetto, un mio carissimo amico d’infanzia, continuava a ripetermi di andare a caccia con lui e con la sua squadra di cinghialai sui monti che confinano col fiume Fiora. Avevo sempre declinato l’offerta perché, forse con l’avanzare dell’età, ormai preferisco cacciare il più possibile vicino casa. Non tanto perché mi pesa guidare per un’ora e mezza o percorrere cento e più chilometri al mattino presto, quanto perché ormai so che il rientro alla sera è tutta un’altra cosa. Ma un bel giorno Marchetto riuscì a convincermi. Evidentemente era destino!
Così un bel mattino partimmo che ancora era buio pesto, alla volta dei monti e delle valli che si trovano a cavallo tra il meraviglioso paesino di Manciano e quello, molto più famoso, di Saturnia. Faceva caldo per il periodo e grossi e scuri nuvoloni incombevano minacciosi nel cielo. In macchina eravamo in tre, io, Marchetto e Alfonso, che oramai da alcuni anni è il mio inseparabile compagno di avventure. Alfonso era ancora “vergine” con i cinghiali, ed io non so cosa non avrei dato per fargliene tirare uno. Da quel che mi aveva accennato Marchetto, sapevo che nella sua squadra le poste si sorteggiavano, ma io mi proposi ugualmente di scambiare la mia con quella di Alfonso, semmai fosse servito a favorirlo. Giunti a Poggio Murella dove si trovava il rialto, il luogo del raduno, mi accorsi con piacere che già conoscevo bene o di vista un buon terzo dei membri di quella ben amalgamata squadra di arcigni cinghialai. Perdemmo pochi minuti per i saluti e per le presentazioni d’obbligo, ci segnammo nella lista dei partecipanti alla battuta, pagammo sia la quota per la squadra sia quella per l’ATC e poi, mentre Alfonso s’accollava l’onere di accendere il fuoco, io, Marchetto e Giorgio il capocanaio, partimmo alla ricerca di tracce fresche. Quando Giorgio chiese se fossi abbastanza pratico nel tracciare, gli rispose Marchetto: “Da bambino Marco andava ad assestare i cinghiali con mio nonno!!” Rassicurato, Giorgio mi lasciò lungo l’argine del fiume Fiora e mi chiese di tenere sia il cellulare sia la radiolina accessi per mantenerci in contatto. Salutai gli amici con un “in bocca” poi mi avviai con un timido sole che cercava invano di far capolino tra le nuvole plumbee. Sperai vivamente di non pentirmi di aver lasciato l’ombrello in macchina. Camminai silenzioso e attentissimo come un pellerossa per più di due ore, e quando raggiunsi il luogo prestabilito per il ritrovo, avevo la maglietta completamente fradicia di sudore. Feci immediatamente rapporto, ma con scarso entusiasmo perché avevo tracciato pochi animali e quasi tutte le “piedate” che avevo visto uscivano dalla zona che intendevamo battere. In compenso trovai le tracce fresche di un lupo ed anche le sue fatte: un grosso cilindro di feci nere miste a pelo di cinghiale. Mi sembra superfluo ricordare che la presenza dei lupi in Maremma è ormai diventata preoccupante. Sia Marchetto sia Giorgio si complimentarono con me per il preciso resoconto, mi ringraziarono per l’impegno e mi rassicurarono dicendomi di non preoccuparmi perché altri compagni di caccia avevano avuto più fortuna di noi in un’altra zona. Intorno al fuoco venimmo a sapere che un grosso branco di cinghiali aveva bazzicato in un fitto bosco poco distante e che, stando alle tracce, non doveva esserne uscito. Le probabilità di riuscire a chiuderlo nella battuta erano molto alte.
Come si dovrebbe far sempre tutte le volte che ci si appresta ad andare di posta, salimmo su pochi fuoristrada per arrecare il minor disturbo possibile al territorio. A me era toccata la posta 69, a Alfonso la 70 e ad un simpaticissimo, anziano signore la 71. Su indicazione di Giancarlo, il vice capocaccia, ci schierammo ai margini di un prato talmente piatto e pulito da poter essere utilizzato come campo da golf. Era lungo più di duecento metri e largo forse una novantina e noi avremmo dovuto presidiarlo in tre (?!). Anche se Alfonsino è un discreto tiratore col 12, non aveva mai sparato ad un cinghiale e con i suoi settantatre anni non potevo certo pretendere che mi sbalordisse con qualche scatto fulmineo. Ipotizzai che anche l’altro signore dovesse essere addirittura più anziano di lui, ma a chi importava? Mi consolai ammettendo che se il destino aveva voluto così, noi ci saremmo dovuti arrendere ad esso. L’importante comunque era che il tempo reggesse, visto che le previsioni erano tutt’altro che buone. Giancarlo mi fece giustamente notare che la mia posta era la migliore perché più vicina al bosco, poi ci salutò augurandoci di trascorrere una buona giornata. Prima che si allontanasse, gli chiesi se sarebbe stato possibile cambiare la mia posta con quella di Alfonso perché se si fosse presentata una buona occasione di tirare, sarei stato più felice che fosse Alfonso a cercare di sfruttarla. Giancarlo acconsentì, dicendo che per lui non faceva differenza a patto di attenersi scrupolosamente a tutti i criteri di sicurezza imposti. “Ricordatevi invece di parare i cani se padellate”, furono le sue ultime raccomandazioni.
Come un padre che accompagna il figlio il primo giorno di scuola, indottrinai per la millesima volta il mio amico su come comportarsi alla posta, gli caricai addirittura la carabina Browning BAR calibro 30.06 con 5 cartucce da 165 grani, poi mi accertai anche che il suo Docter 2 fosse acceso. Ci accordammo sui reciproci angoli di tiro ed infine andai a scambiare due chiacchiere anche col vicino di posta che avevo sulla mia destra ad un centinaio di metri di distanza. Fatte tutte le raccomandazioni del caso, finalmente mi appostai anch’io. Dato che eravamo in un campo aperto, improvvisai un modesto riparo con quattro rami di ginestra, poi tolsi dal fodero la carabina. Considerando l’amore che ho per le mie armi e per la mia attrezzatura, non mi andava di vederli bagnati o rovinati dall’acqua, così, a malincuore, avevo deciso di lasciare a casa la vecchia HK 770 calibro 308 per prendere la mia nuova BAR Long Trac “ognitempo”, con il calcio in materiale sintetico in calibro 30.06. La caricai con cinque cartucce alternando palle Hornady SST da 165 grani e RWS TIG, ora ID Classic da 150, che in quell’arma si sono dimostrate precise e micidiali. Mi sedetti sullo sgabellino, adagiai l’arma di traverso sulle gambe e mi rilassai in attesa dell’inizio della battuta. Mentre studiavo con occhio critico la zona ipotizzando alcune possibili situazioni, mi venne da ridere. In tre avremmo dovuto impedire ad un cinghiale di attraversare quel campo lanciato a tutta velocità? Con il signore alla mia destra armato con una doppietta modello Tiburzi e con Alfonso, più moderno come potenza di fuoco, ma non certo agile come un ballerino? E pensare che al rialto m’era stato addirittura detto che quelle dove eravamo erano delle “poste bone”! Per un secondo mi balenò un’idea: e se davvero dovesse arrivare un cinghiale? E se noi non riuscissimo a prenderlo? Quello avrebbe potuto trascinarsi dietro l’intera muta di cani fuori cacciata! E noi tre poi, saremmo stati ricordati (io in particolare) come degli incapaci novellini nella caccia al cinghiale. Decisi che se ad un cinghiale fosse venuta la malaugurata idea di attraversare qual campo avrebbe dovuto farlo a suo rischio e pericolo. Così, per stare più tranquillo, preparai a portata di mano un altro caricatore. Rassicurato da quel semplice gesto, allungai una mano verso lo zaino per prendere un panino con il salame e una bottiglietta d’acqua. La camminata del mattino mi aveva smosso un certo languorino allo stomaco, ma come diedi il primo morso, proprio davanti a me udii l’inconfondibile rumore provocato da un fuoristrada munito di carrello carico di cani che abbaiavano impazienti di essere liberati. Mancava soltanto che ci fosse anche una strada davanti a noi. Fu allora che mi convinsi definitivamente che in quel campo un cinghiale non ci sarebbe venuto neanche da morto….
Invece, mai considerazione si rivelò più sbagliata. Finii il panino con gusto, bevvi mezza bottiglietta d’acqua, salutai Alfonso per controllare se stava in allerta, feci un gesto anche all’altro nuovo amico. Poi presi il cellulare per telefonare a casa all’adorata mogliettina per ricordarle di accudire i cani, in particolare Lara, la mia giovane Jagd Terrier che era incinta e prossima a partorire. La santa donna mi rispose come sempre: “Tanto chi ci pensa anche quando sei a casa?”. Mentre stavo ancora sorridendo per il giusto rimprovero ricevuto, nel bosco udii un rumore rovinoso, come se stesse arrivando un altro fuoristrada di corsa. Il solito ritardatario pensai. Non avendo ancora sentito il suono del corno d’inizio battuta ipotizzai che la bracca non avesse ancora sciolto i cani. Questa volta però il rumore nel bosco non lo sentii parallelo al prato, ma come se venisse progressivamente verso di me. Allorché mi venne un sospetto. Mi alzai lesto dallo sgabellino, controllai che l’arma fosse carica con la sicura disinserita, ebbi appena il tempo di rimuovere il coperchietto-interruttore dal Docter 3 che davanti agli occhi mi si presentò lo spettacolo più bello che un cacciatore di cinghiali potesse mai immaginare di vedere almeno una volta nella vita: un branco di grossi cinghiali che correvano verso di me per cercare di attraversare il campo!
Stai calmo, mi dissi. Non è certo la prima volta che vedi un branco di cinghiali. Non devi fare altro che seguire gli insegnamenti del nonno e assecondare l’istinto. Falli entrare bene nel prato per impedire che tornino indietro, poi assicurati di abbattere la scrofa capobranco in modo da sbrancare gli animali per dare modo di sparare anche gli altri. Così, quando il primo animale fu a una sessantina di metri, posizionai il Red Dot in mezzo agli occhi della grossa femmina e deciso strinsi il grilletto. La scrofa morì ancor prima di toccar terra e una volta privati della loro capobranco, i cinghiali che la seguivano si aprirono in un meraviglioso ventaglio grigio scuro. Da buon mancino, mi venne spontaneo tirare prima a quelli che avevo sulla mia destra, poi cercai il solengo che avevo intravisto arrivare per ultimo e l’inchiodai con un preciso colpo al collo. Veloce cambiai caricatore mi spostai a sinistra e continuai imperterrito a sparare. Richiamato dalle grida di un verrotto ferito alla mia destra, mi voltai di nuovo e lo finii con un altro colpo. Infine mi accorsi che nel campo non c’erano più cinghiali che correvano ed anche che la mia BAR era ormai scarica e con l’otturatore aperto. La prima cosa che feci fu sostituire il caricatore vuoto con uno pieno che avevo in tasca, poi andai a controllare se in terra ci fosse ancora qualche animale sofferente per dargli il colpo di grazia. Quel che vidi mi lasciò letteralmente senza fiato! Nel bel mezzo del prato c’erano solo cinghiali morti. Ne contai sette ed io avevo tirato nove colpi. Tutta l’azione di caccia doveva essersi svolta in non più di 10–20 secondi. Ancora oggi, dopo molte notti insonni trascorse a cercare di ricordare cosa successe effettivamente quel giorno, ho una certa difficoltà ad aver ben nitido l’episodio. Ricordo bene come s’inginocchiò la scrofa, il ruzzolone rovinoso del solengo e l’ultimo cinghiale che per abbatterlo mi ci vollero due colpi, perché col primo l’avevo colpito male un po’ dietro. Tutto il resto dovetti farmelo raccontare da Alfonso e da Virgilio, i miei due, diciamolo pure, altrettanto fortunati compagni di posta. Alfonso mi confidò di non essersi mai divertito tanto, mentre Virgilio ammise di non aver mai visto niente di simile né di aver mai sentito dire che qualcun’altro avesse fatto una cosa del genere. In casi come quelli Radio Macchia e Radio Maremma sono velocissime. In men che non si dica la notizia fece il giro della provincia. Qualcuno ebbe anche l’ardire di rimproverarmi che “per tradizione” qualche padella avrei dovuto farla, oppure che mi sarei dovuto accontentare di abbatterne tre o quattro e di lasciar passare gli altri. Un altro mi accusò di aver sparato troppi colpi. Forse avevano ragione e forse in qualche modo ho davvero sbagliato in qualcosa, chissà, ma ormai quel che era stato fatto era stato fatto.
Da quel giorno un pensiero mi assilla … perché Diana o Sant’Umberto, hanno voluto farmi vivere un’avventura simile? Perché hanno voluto farmi quel dono? Mi sono quasi convinto che forse devo averlo meritato per tutti gli anni che ho dedicato alla caccia al cinghiale e per l’infinita devozione con cui l’ho sempre praticata. Sono stato fortunato? Certo, come negarlo, però c’è da dire anche che ho saputo affrontare la situazione come andava affrontata, con freddezza, professionalità e soprattutto tecnicamente preparato. Ero armato con un’arma affidabilissima, dotata di un puntatore elettronico di ultima generazione, valido, montato a regola d’arte su degli attacchi geniali e perfettamente tarato. Inoltre ho usato un calibro adeguato con munizioni ricaricate molto prestanti e potenti ed ammetto di essere un buon tiratore molto allenato che spara migliaia di cartucce l’anno. Non so come sarebbe andata se per abbattere ogni animale ci sarebbero voluti due o più colpi. Quando la sera giunsi a casa con in volto il mio sorriso più bello, mia moglie, prima ancora che aprissi bocca, mi disse: “Come mai sei così felice? Lo hai già saputo? Te l’ha già detto Giuliano? Sei diventato Nonno! Lara ha partorito. Ha fatto cinque meravigliosi cuccioli”…
Era il 29 di Novembre!
Marco Benecchi