Forse la maggior parte di voi penserà che è una frase banale, retorica, con una punta di stucchevole utopismo: noi siamo ciò che mangiamo. Questa citazione (di Ludwig Feuerbach, filosofo tedesco), insieme ad altri aforismi più o meno “scientifici”, è diventata un mantra nella tendenza generale alla riscoperta del mangiar sano che cerca di proporci alternative alimentari biologiche, a chilometro zero (con tutte le possibili contraddizioni insite nella categoria, di cui ci occuperemo prossimamente), in una parola “naturali”. Il che, a pensarci bene, è già abbastanza straniante, dato che in teoria tutto quanto il cibo dovrebbe essere “naturale”, essendo un prodotto della terra. Sembra bizzarro, ma quasi nessuno, al di fuori di specifiche correnti di pensiero, sembra far caso a ciò che mette in tavola: il supermercato è il fertile grembo della Grande Madre che accoglie i consumatori con la sua vasta gamma di prodotti, alcuni più economici di altri; la gente entra, compra ed esce, in un meccanismo che si ripete a scadenze regolari. L'ho già detto in queste pagine e lo ripeto: essendo figli del supermercato non potevamo che ereditare una mentalità da supermercato. Non credo che sarebbe una cosa malvagia interrompere per un attimo la lettura e domandarsi, con la mente sgombra di pensieri: che cos'è, oggi, il cibo? Che cosa significa, oggi, mangiare?
Prima di rispondere, però, è bene partire da un altro quesito: cosa c'è dentro i generi alimentari che acquistiamo? A titolo d'esempio, proviamo a concentrarci sui salumi, di cui l'Italia è uno dei maggiori produttori al mondo: questi, nella stragrande maggioranza dei casi (sebbene, va detto, esistano alcune, incoraggianti eccezioni), contengono due tipologie di conservanti, nitriti e nitrati, normalmente presenti in molti vegetali. Trattasi di elementi chimici che in natura vengono “neutralizzati” dagli antiossidanti come la vitamina C, ma che, da soli, all'interno del nostro organismo possono risultare altamente nocivi – non è questa la sede per scendere nel dettaglio; tuttavia, se siete interessati, una rapida ricerca sul web potrà chiarire molte cose. Inutile dire che non sempre salumi e insaccati contengono antiossidanti conservati con nitrati, di per sé innocui rispetto ai “colleghi” nitriti, ma ovviamente il consumatore medio si limita all'acquisto passivo di qualsiasi cosa senza neppure provare a farsi cogliere da un barlume di curiosità. Eppure non di rado capita di imbattersi in etichette chilometriche, più simili alle controindicazioni di un farmaco che a un elenco di ingredienti.
Certo, viviamo in condizioni di vita caotiche, in cui non sembra esserci spazio per selezionare correttamente ciò che è destinato alla nostra digestione. Se lasciamo da parte l'opinione del tutto arbitraria che il nostro paese, patria del D.O.C., D.O.P. e di tanti altri rassicuranti acronimi, sia in questo senso un'isola felice, le cifre relative al tasso di obesità in tutti gli strati della popolazione mondiale “ricca” viaggiano costantemente al rialzo. Spariamo pure a zero sulla croce rossa e facciamo un salto negli States, dando un'occhiata ai soli young boys – dai 2 ai 19 anni – affetti da obesità o comunque in sovrappeso: circa 23,9 milioni, di cui il 33% dei ragazzi e il 30,4% delle ragazze*. Stiamo parlando di un'epidemia in piena regola che rischia di falcidiare irrimediabilmente il futuro delle nuove generazioni, condannate a una speranza di vita più corta rispetto a quella dei loro genitori. Sono, in particolare, gli strati economicamente e culturalmente più deboli a risentire di questa crescente patologia, a dimostrazione del fatto che, nel tempo, l'alimentazione si è trasformata in una sorta di “abitudine estetica” che ha privato del tutto il cibo del suo ruolo funzionale, legandosi a usi, costumi, stili di vita frenetici e inadatti alla salute umana.
La nostra corsa al soddisfacimento degli obblighi imposti dal lavoro, la stanchezza che segue al ritorno a casa, le piccole incombenze domestiche: ciascuna di queste attività – che si incastrano nel mosaico delle nostre abitudini giornaliere – ha di fatto relegato il “mangiare” a una specie di fastidiosa incombenza, per cui sempre più spesso si sente il bisogno di ricorrere ai cibi in busta, precotti e surgelati, a danno della salute. E dell'economia, per giunta. Sempre negli U.S.A., il costo relativo alla prevenzione dell'obesità per i soli adolescenti si aggira intorno ai 254 miliardi di dollari: una cifra a dir poco mostruosa.
Non dimentichiamoci, naturalmente, dell'altra faccia della medaglia: il cibo come venerazione, come pornografia legittimata, che in questi ultimi anni sta spopolando nei più vari format televisivi (dal reality show ai canonici programmi di cucina): ogni canale ha i suoi santoni della tavola, chef stellati che si cimentano in creazioni tanto ardite quanto assurde, ma anche massaie ricoperte d'oro che propongono varianti su varianti, rivisitazioni, profanazioni della memoria di illustri pionieri della gastronomia come Pellegrino Artusi. Ce n'è per tutti i gusti, insomma. Se, da un lato, questa masturbatoria riscoperta alimentare è giudicata positivamente da addetti ai lavori come Alessandro Borghese, che parla di rivitalizzazione del mercato (non a caso le iscrizioni agli istituti alberghieri sono cresciute a dismisura), dall'altro si fa sempre più concreto il rischio di “spersonalizzazione” del cibo in sé, ridotto a mera istanza estetica, strumento edonistico che poco o nulla ha a che vedere con il suo significato originale.
Per tornare alla domanda che ci siamo posti all'inizio di questo articolo: il cibo, oggi, sembra essere tutto tranne che cibo. È spazzatura, spesso e volentieri robaccia da laboratorio spacciata per “prodotto della nonna”, ma anche un totem, una moda raffinata, che non di rado degenera in una corsa insensata all'ingrediente più estremo (facendo – non c'è neppure bisogno di dirlo – la fortuna delle televisioni). Pochi, forse, si ricordano di ciò che dovrebbe essere veramente, cioè puro e semplice nutrimento, al di là di tutte le questioni e i dibattiti etici che, oggi come non mai, si affollano intorno ad esso. Tutte problematiche più che legittime, che a me in prima persona piacerebbe affrontare anche lontano da internet, ma che non possono prescindere da una riscoperta funzionale di ciò che la nostra terra produce. Perché la sfida più grande, ancora una volta, è tornare normali.
Ivan Bececco