Non erano ancora le sei e trenta del mattino che Pietro si concesse il primo sigaro della giornata. Era visibilmente emozionato e cercava di nasconderlo, ma a me non la dava a bere perché lo conosco da così tanto tempo da considerarlo quasi un fratello. Cercai di rilassare l’atmosfera scherzando sul fatto che negli ultimi due giorni la temperatura era calata di oltre quindici gradi. Era il 27 di ottobre e ci trovavamo sulle Alpi Slovene Nord Occidentali per cacciare i camosci in una splendida Tenuta statale vicino Kamnik.
Era la riserva preferita dal Maresciallo Tito per la caccia in montagna, come dimostravano le numerose foto che ci avevano mostrato in precedenza le guide che ci avrebbero accompagnato quel giorno. E come sempre, anche quel mattino arrivano puntuali con le loro Lada Niva che illuminarono lo spiazzo adiacente la casa di caccia non tanto per fare manovra quanto per permetterci di controllare se avessimo preso tutta la nostra attrezzatura. Pietro ed io eravamo carichi come muli e vestiti come Babbi Natale, mentre Jones ed Ivan, i due Guardiacaccia Sloveni (Cinquant’anni a testa e in forma fisica perfetta), indossavano soltanto una leggera camicia a scacchi con sopra una ancor più leggera giacca verde militare, più adatta alla caccia al capriolo in maggio che al clima di quel mattino. La sera precedente, di comune accordo, avevamo deciso la strategia da seguire: io avrei cacciato con Jones sul versante est della montagna mentre Pietro sarebbe andato con Ivan a cercare un buon camoscio sul versante ovest. Salutai il mio amico in modo alquanto singolare: “Occhio al ginocchio”, perché sapevo che ancora si portava dietro un bel chiodo metallico, ricordo delle partite di calcio giocate in gioventù.
La vetusa e puzzolente Lada cominciò a salire rapidamente, costringendo il guidatore ad innestare subito le marce ridotte. La visibilità sulla mulattiera era ridotta a pochi metri a causa di una nebbia fittissima, e questo mi preoccupò molto. Ma Jones, forse intuendo i miei pensieri, mi rassicurò facendomi capire che sarebbe stata una bellissima giornata e che in alta montagna la nebbia non l’avremmo vista. Conoscendolo ormai da diversi anni, non osai dubitare delle sue parole, ma riguardandomi intorno qualche piccolo dubbio rimase. Jones, con dei gesti inequivocabili, m’incitò a preparare la carabina perché, essendo molto indietro con la Selezione alle femmine di capriolo e di muflone, se fossero capitati a tiro i capi giusti mentre stavamo raggiungendo la vetta, mi avrebbe autorizzato a sparare.
Come dice il mio carissimo zio Bruno: ”Noi siamo nati nel posto sbagliato!” Sono Maremmano e me ne vanto, ma tutte le volte che mi trovo ad ammirare il sorgere del sole in cima ad una montagna a oltre duemila metri di altitudine, mi viene sempre la voglia di mollare tutto, di prendere moglie, figlio, carabine, Jagd Terrier e setters e di trasferirmi definitivamente da quelle parti. Poi però inevitabilmente ci ripenso, perché mi mancherebbero troppo i parenti stretti, gli amici e soprattutto la “Cacciarella Maremmana”, pressoché sconosciuta dai cacciatori di montagna, ed anche il mare.
Jones quando parla lo sloveno velocemente sembra Arafat, quindi tanto valeva intenderci a gesti. Giunti al capolinea con il fuoristrada, parcheggiammo senza sbattere le portiere ed iniziammo a proseguire a piedi. Guardai la mia guida con rabbia e con un pizzico d’invidia. Oltre allo Specktive, al binocolo e all’onnipresente Alpenstock, portava soltanto un leggerissimo zaino aperto modello Ruck-Saac sloveno. Io invece, pur essendomi limitato all’essenziale, mi caricai sulle spalle uno zaino di dieci chili. Cosa avrei potuto lasciare a casa? La macchina fotografica? La borraccia? La Maglite? La corda? La mantella impermeabile? Le magliette di ricambio? Le munizioni di riserva? I coltelli? L’attrezzo multiuso Leatherman o il Kit di pronto soccorso? In compenso la carabina che avevo quel giorno con me, anche se non la definirei un peso piuma, non era eccessivamente pesante. Avevo in spalla la mia fida Weatherby Mark V SS in acciaio inox, calcio in polimeri e con la canna fluted scanalata in calibro 257 Magnum. L’ho corredata con quella che ritengo un ottimo cannocchiale da “montagna” 18 x 50 P con correttore di parallasse e reticolo balistico. Al poligono “Il Club dell’Istrice” di Tuscania (VT) del grandissimo amico ed armaiolo Sandro Bruni, le mie Nosler Ballistic Tip da 115 grani ricamano a duecento metri delle belle rosate di tre colpi in 2–3 centimetri. Quest’arma mi ha sempre servito bene, deliziandomi con la sua precisione, la sua potenza ma soprattutto con la sua costanza di tiro.
Jones conosce quelle montagne come le sue tasche quindi, come iniziò ad albeggiare, capimmo subito che le sue previsoni erano state esatte e che si preannuncia una giornata meravigliosa con un cielo terso e cristallino e con un’ottima visibilità. Avanzavamo adagio sull’alpeggio brinato che scricchiola sotto i miei comodi scarponcini Zamberlan. Le poche pozze d’acqua che vidi erano ricoperte da un sottile strato di ghiaccio a testimoniare che lassù, di notte, la temperatura doveva essere stata intorno agli zero gradi. Dopo neanche una quindicina di minuti di cammino Jones m’invito ad andare a vedere cosa c’era in una conca sotto di noi. Una decina di camosci pascolavano tranquilli, ignari della nostra presenza. Non riuscii a credere ai miei occhi, che fortuna!!! Meno male pensai, mi sarei tolto subito il pensiero senza dover faticare troppo. Mi venne anche un “pensiero stupendo” alla Patty Pravo.. Chissà, se fossi stato rapido e preciso, in un colpo solo forse sarei riuscito ad abbattere tutti e due i capi previsti dal mio “Pacchetto-Budget”. L’illusione durò il tempo necessario per piazzare il lungo e visionare ogni singolo animale. Gli unici camosci tirabili erano Off-limits come punteggio, e quindi come prezzi. Avevano dei trofei che sembravano manici di ombrelli! Mi concessi soltanto il lusso di ammirarli attraverso l’ottica della carabina, fantasticando sul bellissimo (ipotetico) tiro che avrei potuto fare, non superiore comunque ai duecento metri. Sono quelli i momenti in cui rimpiango di non aver mai giocato al Superenalotto! Senza perdere più tempo del necessario riprendemmo a salire.
La prima ora fu la più dura. Le gambe ressero bene e non sudai molto, ma ebbi qualche difficoltà a regolarizzare la respirazione perché non sono abituato a fare delle lunghe marce a quelle altitudini. Durante qualche breve sosta, di non più di cinque-dieci minuti, avvistiamo ancora altri camosci che, come i precedenti, purtroppo non rientravano nel nostro piano di prelievo, costringendoci a continuare la cerca. Non sto a sottolineare che ogni volta che lasciavamo quelli splendidi animali, con loro rimaneva anche una parte del mio cuore. Camminavamo come alpini lungo sentieri ripidi e pericolosi e in molti casi avanzammo aggrappandoci a dei cavi d’acciaio ancorati, chissà da quanto tempo, alle pareti scoscese. Verso le undici e trenta del mattino ebbi un bisogno morboso di bere. Ero fradicio di sudore quando pregai Jones di fare una sosta per cambiarmi la T-Shirt e per bere un generoso sorso d’acqua. Lui sorrise e sempre con la solita mimica mi chiese come andassero le gambe. Gli risposi che le gambe andavano bene, perché in Italia consumavo ancora quasi un paio di scarponi l’anno, ma non mi feci illusioni. Essendo abbastanza esperto di caccia in montagna lo sapevo che i dolori si sarebbero fatti sentire più tardi. Dalle dodici e trenta alle quindici camminammo molto meno, più lentamente, e facendo soste più lunghe e frequenti. I camosci sembravano spariti, non se ne vedevano più in giro di nessuna classe d’età. A quel punto, non lo nego, lo sconforto cominciò a farsi sentire e con esso anche una stanchezza che fino ad allora doveva essere stata attenuata soltanto dalla passione venatoria e dall’entusiasmo. Sono convinto che il mio amico guardiacaccia provò una profonda compassione nei miei confronti quando mi sollecitò a rimettermi in spalla lo zaino e invitarmi a seguirlo per una ennesima, estenuante camminata. Passavo di continuo la carabina dalla spalla sinistra alla destra, a secondo di quale mano mi serviva per appoggiarmi ai rami bassi dei radi alberi o alle pareti di roccia. Solo lo splendido panorama che ci circondava riusciva ancora a darmi un po’ sollievo. Nonostante i miei di problemi, il mio pensiero andava spesso a Pietro e al suo ginocchio, non osai immaginare che calvario stesse passando il mio compagno di avventura. Rimpiansi le lunghe ore trascorse insieme gomito e gomito sulle altane italiane e sulle“ceke” slovene e croate, e pensai: ”Ma chi ce lo fa fare a faticare così tanto?” Per Pietro era il suo primo camoscio, quindi in parte giustificavo i suoi sforzi, mentre io ne avevo già vissute parecchie di belle avventure in montagna.
Fui riportato alla realtà dal granitico sloveno che, visibilmente eccitato, m’indicò un masso dove adagiare lo zaino e mi chiese in prestito il mio binocolo. Lo raggiungi in tempo per ammirare un bel camoscio che pascolava a ridosso di un costone ripidissimo, praticamente dove eravamo noi mezz’ora prima!! Era parzialmente coperto dalla vegetazione, tanto da non riuscire a determinare né il sesso né l’entità del trofeo. Jones invece mi sollecitò a prepararmi, dicendomi che si trattava di un bel maschio tra i 90 e i 100 punti e che la distanza che ci separava da lui era di 193 metri esatti. Mi misi in punteria in un attimo e cominciai a prepararmi per il tiro. Più o meno eravamo sullo stesso livello e la distanza era decisamente ottimale. La mia unica preoccupazione erano quei maledetti rami che lo nascondevano a tratti.
Il 257 Weatherby Magnum è un calibro potente, ma impiega una palla piuttosto leggera che non mi avrebbe garantito un abbattimento perfetto se prima di raggiungere il camoscio avesse colpito della verzura. Esternai i miei dubbi a Jones che invece mi ordinò di tentare ugualmente il tiro perché si stava facendo tardi. Il camoscio si presentava di tre quarti con il muso rivolto dalla parte opposta verso un boschetto di conifere. Decisi di mirarlo dietro la spalla destra con l’intento di infilarlo diagonalmente. Ma mentre controllavo la respirazione e mi apprestavo a sfiorare il sensibile scatto della Mark V, l’animale mosse qualche passo verso il bosco. A quel punto fui preso dalla fretta e cercai di anticiparlo, così quando mi sembrò che fosse fermo, lasciai partire la Nosler Ballistic Tip da 115 grani. Come a volte succede quando impieghiamo un calibro Magnum e siamo in una posizione scomoda, il rinculo m’impedì di vedere nell’ottica della carabina l’esito del colpo, ma l’urlo sgraziato che fece Jones alle mie spalle non fu certo rassicurante. Il camoscio era sparito, ma stranamente nelle pietraie che circondavano il boschetto di conifere non vedemmo scappare nessun animale, anzi ero quasi convinto di aver sentito un rumore provocato da un qualcosa che rotolava tra le foglie. Aspettammo i canonici dieci minuti che a me sembrarono una eternità, poi finalmente lo sloveno decise che era ora di andare a vedere.
Ripercorremmo il sentiero a ritroso finché speranzosi non raggiungemmo l’Anschuss, ma sul posto non trovammo nessuna traccia che potesse indicarci se il camoscio è stato ferito oppure no. Alcune foglie smosse pochi metri più in basso, come in scivolata, ci fecero ben sperare cosi iniziamo a seguire quella flebile traccia. Il primo a vedere il camoscio fu Jones e il suo grido di gioia anticipò di poco il mio. Il robusto selvatico era rotolato per una cinquantina di metri, fermandosi agganciato per un corno ad una provvidenziale radice che gli aveva impedito di cadere fino a valle. Jones mi confidò che se fosse caduto nel precipizio, forse non saremmo mai stati in grado di recuperalo. Un caloroso Lowskyblogor pronunciato dall’esperto guardiacaccia mentre mi porgeva il Bruch, mi fece venire gli occhi lucidi. Il camoscio era un bel maschio di cinque anni, dal fisico robusto e dal manto folto e lucente con delle briglie ben marcate. Anche come punteggio dovevamo esserci.
Per abitudine e per curiosità, volli verificare l’effetto della micidiale palla. Avevo colpito il camoscio piuttosto indietro, circa all’altezza dei reni, trapassando in diagonale polmoni e cuore e provocando una morte istantanea. Solo la sua eccezionale robustezza e la pendenza del terreno gli aveva concesso di percorrere quei pochi passi che ci avevano fatto temere il peggio. Lo eviscerammo sul posto riproponendoci di scattare qualche fotografia in un a zona meno ripida e quindi più sicura, ma a quel punto un pensiero mi colpì come una mazzata: “Come saremmo ritornati al Fuoristrada?” Quando lo chiesi a Jones, lui scoppiò in una fragorosa risata, facendomi notare che con una piccola passeggiata di un paio due ore in discesa, saremmo arrivati dritti dritti alla casa di caccia, e che più tardi si sarebbe fatto accompagnare dal figlio a recuperare la macchina. Sono allenato a portare dei pesi sulle spalle, a camminare ed anche a soffrire, ma non sono certo preparato a scendere da una montagna tanto ripida e carico come un mulo, specialmente con addosso anche gli strumenti ottici della guida. Arrivare a destinazione fu una vera e propria tortura e quando varcai la soglia della nostra stanza, i muscoli quadricipiti delle cosce e le dita dei piedi mi dolevano terribilmente. Trovai Pietro già a letto, con tutto l’abbigliamento da caccia ad asciugare sul termosifone acceso. Il suo Mutts però era ornato con un rametto di abete, segno inequivocabile che il mio amicone aveva colpito.
Ascoltare il suo racconto fu come rivivere la mia avventura, tanto le due storie si somigliavana, solo che lui aveva abbattuto una meravigliosa femmina medaglia d’argento, sorpresa dopo un accostamento da manuale, in mezzo ad un branco di cinque animali. Mi raccontò che per guadagnarsi quel prezioso trofeo aveva dovuto sudare le proverbiali sette camice, cacciando con impegno e rispettando le tradizioni imposte dalla caccia in montagna. Pietro aveva utilizzato una bellissima carabina Sabatti Rover De Luxe accuratizzata da Mauro Redolfi in calibro 7mm Remington Magnum caricata con una palla Nosler Ballistic Tip da 140 grani molto accurata e tesissima. Un preciso colpo, tirato da non più di 150 metri, aveva fulminato la femmina di 9 anni mentre si apprestava ad attraversare un prato.
Cenammo praticamente bevendo solo birra (Pivo in sloveno), alternando la Union con la Lasko in attesa di lasciarci vincere dalla stanchezza. Decidemmo che l’indomani Pietro, ormai sazio della montagna, avrebbe cacciato femmine di muflone e di capriolo, mentre io avrei tentato di nuovo la sorte inseguendo ancora il Rupicapra.
Grazie agli antidolorifici, dopo un lungo sonno ristoratore senza sogni, mi svegliai abbastanza in forma per riprendere la caccia. Il Nescafè lo presi doppio con tre cucchiaini di zucchero. Al sorgere del sole Jones volle giocare subito il suo asso nella manica, prima che il grosso dei turisti domenicali cominciasse ad invadere gli alpeggi. Avremmo cercato un giovane camoscio che Jones aveva già visto in diverse occasioni vicino ad un rifugio a neanche mezzora di cammino da noi. Accelerando il passo ci arrivammo in venti minuti e subito piazziamo lo Specktive in posizione strategica con la speranza che si presentasse una buona occasione. Nel frattempo, sfruttai il tempo a disposizione per prendere in anticipo qualche distanza con il telemetro laser. “Gams” sussurrò lo sloveno indicandomi due camosci in un costone roccioso sulla nostra destra. Col solo 8 x 42, vidi distintamente gli animali, ma non l’entità dei loro trofei. Jones invece, attraverso il lungo, confermò che quello di destra era il camoscio che stavamo cercando, ma dovevo stare molto attento perché l’altro era un “Kapital” medaglia d’oro! Scherzai proponendogli uno sbaglio di valutazione da parte sua, ma visto che Jones non era un tipo molto spiritoso iniziai a sistemare la carabina per il tiro. La distanza non era proibitiva, 253 metri esatti, ed il camoscio si stagliava contro le rocce come se fosse una sagoma in un poligono. Per abitudine, quando mi appresto a tirare a più di 200metri, faccio sempre quattro conti. Penso alla taratura dell’arma, al calo della palla, alla rarefazione dell’aria e all’angolo di sito. Decisi di posizionare il reticolo del 6–18 x 50 sulla spalla del camoscio quattro dita sopra la sua mezzeria poi, convinto che tutto fosse a posto, sfiorai il grilletto.
Quella volta, a quella distanza e in quella posizione ottimale, neanche il forte rinculo della 257 Weatherby Magnum m’impedì di vedere il selvatico cadere fulminato sulle quattro zampe. Jones partì subito al recupero come un Breton ben addestrato. Mentre io, con l’adrenalina a mille, scaricai l’arma, riposi binocolo nello zaino e mi concessi un gran bel sorso d’acqua. Chissà perché avevo già la gola così secca!! Raggiunsi l’amico che nel frattempo aveva terminato di pulire l’animale (altrimenti, come dice lui, si rovina la carne e addio salame). Il camoscio abbattuto era un bel binello, in un piano selettivo lo avrei sicuramente risparmiato, ma Jones invece sembrò molto soddisfatto. Contento lui contenti tutti. Il capo rientrava pienamente negli accordi e specialmente cacciando a punteggio, mantenersi nei limiti prefissati non è cosa da poco.
Rientrati alla casa di caccia, venimmo a sapere che anche Pietro aveva avuto fortuna abbattendo una femmina di capriolo di ben venti chilogrammi di peso (eviscerata), caso eccezionale per gli standard del luogo. Finalmente giunse l’ora di pranzo e Pietro, con un sigaro in bocca stile Churcill, mi chiese se avessi avuto qualche preferenza da comunicare al cuoco. Gli risposi che il menù non mi preoccupa, che qualsiasi cosa avesse cucinato Mikha quel giorno, sicuramente avrebbe avuto un sapore particolarmente squisito e indimenticabile.
Marco Benecchi