Per molti altri cacciatori residenti nell’Alto Lazio, la piccola cittadina balneare di Santa Severa, o meglio i boschi che le fanno da anfiteatro, sono sempre stati sinonimo di Caccia al cinghiale. Basta soltanto sentir pronunciare quel nome che subito ti viene in mente quella piccola cresta di colline che fa parte dei famosi Monti della Tolfa, dove è nata la Cacciarella Laziale, praticamente “Dove tutto ebbe inizio!” dove fu schierato il primo grosso spiegamento di cacciatori, dove furono liberate le prime grosse mute di cani e dove germogliò l’antica tradizione della caccia al cinghiale in battuta. Per me in particolare, le Macchie di Santa Severa sono molto importanti perché sono i luoghi dove ho trascorso molta della mia infanzia e diciamo tutta l’adolescenza. E’ dove ho abbattuto il mio primo cinghiale e dove prima di me lo abbatterono anche mio padre e mio nonno.
La “Caccia poverella”, come usavano chiamarla gli anziani, perché spesso poteva capitare di star fuori giorni e giorni al freddo, all’acqua e al vento senza riuscire a racimolare neanche un pezzo di carne per fare il ragù, è nata proprio su quei monti. Sono stati in molti ad avanzare la paternità della caccia al cinghiale in Italia ma, credetemi, i veri padri sono stati i cacciatori laziali di fine ottocento. Anzi, ad esser sinceri, sono stati i nobili romani e viterbesi, quando decisero di organizzare delle grandi battute a cinghiali, daini e caprioli nelle loro immense riserve private, principalmente come occasioni mondane per radunarsi, per incontrarsi, dove principi, marchesi, duchi, conti ed alti prelati potevano approfittarne per raccontarsi i pettegolezzi di palazzo o per tendere oscure trame politiche! Questo accadeva nel “triangolo d’oro” composto dai comuni di Bracciano, Tolfa e Cerveteri, che da soli possono vantare un territorio di centinaia di migliaia d’ettari di meravigliosi boschi mediterranei.
Le Macchie di Santa Severa come: Monte Rosso, i Monti, la Schiassa, il Poggettone, la Chiesaccia, Monte Fagiolano, l’Uliveto, Lerceta e Lercetina, la Castellaccia, Monte Grande, le Bucacce, l’Olmara e tante altre fanno parte del comprensorio di Tolfa che guarda il versante lato mare. E’ quella la vera terra dei butteri, dei giganteschi tori dalle caratteristiche corna a forma di lira e dei puri cinghiali maremmani, dove convivono, a volte in armonia a volte in disaccordo, con allevatori e contadini sin dalla notte dei tempi. Tradizione vuole che tutte le domeniche, dal primo di novembre al trentuno di gennaio, la quasi totalità dei cacciatori residenti vadano a caccia in quei boschi vestiti con dei bellissimi completi in fustagno o in “pelle di diavolo”, spesso bardati con cosciali di capretto o vitellino e con tanto di cravattino sulla camicia candida! Su quei Monti io ho mosso i miei primi passi da cacciatore: è dove ho ricevuto il Battesimo di Sangue, dove ho abbattuto il primo merlo al chioccolo, il primo tordo allo schizzo, la prima beccaccia sotto ferma del cane e dove ho fatto le prime drammatiche padelle!
Poi, si sa, i tempi cambiano. Nel giro di pochi anni, forse neanche un ventennio, quelle zone sono diventate molto aride di selvaggina. Il motivo? Secondo me va ricercato nella pessima gestione del territorio da parte dei politici d’allora che, troppo permissivi e superficiali, consentivano l’allevamento brado e selvaggio di bovidi e suidi e il taglio indiscriminato dei boschi. Così decisi di migrare, mi toccò prendere zaino, cani e fucili e chiedere la residenza venatoria in Toscana, una regione che ha praticamente insegnato la Gestione Venatoria a tutte le altre.
Ma i primi amori non si scordano mai, nelle macchie di Santa Severa ho lasciato il cuore, ancora oggi le conosco come le mie tasche. So dove andare a fare il trapasso ai tordi, dove trovare beccacce, dove balzellare una lepre e dove appostarmi quando soffia la Tramontana per tirare ai colombi, e indipendentemente dalla macchia che s’è deciso di battere, so dove passano i cinghiali e dove sono le lestre e le rimesse. Insomma, per molti anni i Monti della Tolfa–Santa Severa sono stati la mia palestra e il mio oratorio sin da giovanissimo. E un bel giorno ho deciso di ritornarci, d’iscrivermi di nuovo nella squadra di caccia al cinghiale del comprensorio per vedere cos’era cambiato in tutti questi anni.
Comunque, a parte la nostalgia, c’è stato anche un altro motivo che mi ha spinto a ritornare sui miei passi, alle mie origini: nel corso del tempo la situazione s’è davvero capovolta. E’ successo che in Toscana ci siamo ritrovati come diversi anni prima eravamo nell’Alto Lazio. La tanto odiata specie cinghiale era stata drasticamente ridotta. Vuoi per la caccia di selezione vuoi per gli abbattimenti indiscriminati in art. 37 tutto l’anno, la specie ne ha risentito drasticamente e di conseguenza anche le squadre. Mi sono ritrovato con i “vecchi” compagni Laziali che a fine stagione abbattevano il doppio dei cinghiali di quelli presi da una buona squadra in Toscana. Quando presentai la domanda, Cesare, il presidente storico della riserva consorziale disse una sola parola: “Bentornato”! Poi, prendendomi a braccetto, mi confidò che avevano proprio bisogno d un “buon fucile”. Lo ringraziai per l’accoglienza e per i complimenti dandoci appuntamento per la domenica successiva alle otto alla casa di caccia all’Ormaretta!
Quando arrivai fu come se il tempo si fosse fermato ad almeno quindici anni prima. Fu sbalorditivo rivedere tanti vecchi amici con “tanti anni sulle spalle”. Chi aveva i capelli grigi come chi invece non ce li aveva più. Riconobbi a stento qualcuno che era diventato più robusto come Alessione, che invece s’era addirittura dimagrito di ottanta chili! Cose da non credere. Per il resto mi sembrò che il tempo si fosse fermato a prima dell’avvento dell’euro! Trovai diversi cacciatori già radunati intorno al fuoco. Alcuni erano volti noti, mentre altri non li conoscevo, tutti comunque visibilmente animati dalla stessa passione. Mentre annotai il numero del mio porto d’armi sulla lista dei partecipanti, qualcuno alle mie spalle mi porse pane e salciccia con un bicchiere di vino talmente scuro che sembrava inchiostro (alle otto del mattino. Mi voltai per ringraziare l’inatteso benefattore e con piacere riconobbi Franco, che era stato un caro amico addirittura di mio nonno! Classe 1930!! Mentre attendevamo che Cesare e i Capocaccia rientrassero dalla tracciatura, ci raccontammo le nostre ultime avventure e di come lui aveva da poco compiuto ottantasei anni. Poi, forse per farmi partecipe nel discorso, mi chiese che arma avessi dietro quel giorno, se sempre la Heckler & Kock 770 a canna corta in calibro 308 Winchester. No, gli risposi, perché ultimamente stavo cacciando con una coppia di Browning BAR 30.06, una calciata in legno e con il castello inciso con scene di caccia per il tempo buono e una con la calciatura in sintetico per il tempo cattivo. Lo dissi scherzando ma non troppo, perché effettivamente era così. Franco ha usato tutta la vita con una vecchissima doppietta Beretta, ma a malincuore mi confidò che gli mancavano troppo i pallettoni, specialmente ora che i riflessi e la vista non erano più quelli di una volta.
Finii il panino appena in tempo per il raduno delle poste. I tracciatori erano rientrati e tra non molto saremmo partiti per i “dolci sentieri”. Fu deciso di battere la Castellaccia, così li vidi organizzarsi su come piazzare una decina di poste in una stretta attaccatura tra due macchie, mentre tutte le altre si sarebbero schierate nei campi. Tra Cesare ed un suo vice ci fu un impercettibile scambio di sguardi, ammiccando verso la mia direzione, ed io immaginai di cosa stessero parlando. Non sapendo di quale dei due schieramenti avrei fatto parte, presi dalla macchina lo zaino e la carabina ed aspettai paziente d’esser convocato. L’attesa durò poco perché un Elio, ragazzone che non conoscevo, mi fece segno di seguirlo. Assieme al nostro gruppo camminammo in salita per un buon quarto d’ora ed appena raggiungemmo un bosco fittissimo cominciarono a fermarsi i primi i cacciatori. Dopo una curva a gomito nel sentiero, il giovane aiutante sgranò una posta dopo l’altra equidistanti, lungo quel breve tratto strategico. Fece fermare anche me in un buon punto augurandomi di divertirmi. Persino un novellino avrebbe capito che, se il vento si fosse mantenuto buono, lungo tutta la cessa avremmo avuto delle ottime probabilità di tirare. Come un automa eseguii le stesse operazioni che ripeto ormai da quarant’anni. Piazzai lo gabellino, controllai che la pila del mio “punto rosso” fosse carica, feci scorrere nella canna della mia BAR Eclipse Gold mancina una palla TIG Original Brenneke da 150 grani, poi, con la roncola e con le forbici da potatore, diedi una pulita davanti agli ipotetici passi per avere una visuale migliore. Per ultimo controllai anche dove erano i miei due vicini di posta.
La macchia della Castellaccia è molto vasta e soprattutto piuttosto lunga, così l’avvio della battuta arrivò per radio. Dopo neanche una mezzora sentii scoppiare il finimondo. Spari, berci e canizze da tutte le parti. Che musica pensai, e quando mai l’avevamo sentita una cosa simile in passato. E’ proprio vero... i tempi cambiano. Ipotizzai che i primi a tirare dovessero essere le poste messe a vento buono nella larga e così fu. In seguito venni a sapere che in due sole poste avevano tirato a più di quindici animali.
I segugi Maremmani di Bruno, detto Yoghi per l’impressionante somiglianza che ha con il simpatico orso della Disney, li riconobbi immediatamente. Erano famosi in tutto l’Alto Lazio non solo per la loro bravura, ma anche per il loro coraggio e l’aggressività; stavano forzando i cinghiali verso di noi veloci come fulmini. Sopra di me tirarono una bella scarica e subito dopo sentii alcuni cani oltrepassare la linea delle poste. Pensai che chi aveva tirato doveva essere proprio una testa di legno: quante volte i Capocaccia si sono raccomandati di parare sempre i cani e di rimetterli in cacciata quando un cinghiale viene padellato? Ma per fortuna gli animali erano più d’uno. La giornata era piuttosto mite, nel bosco si sarebbe sentita camminare anche una merla, infatti riconobbi subito il rumore provocato da un cinghiale in avvicinamento. Veniva zitto zitto, così alzai la BAR nella classica posa al petto e mi concentrai sui trottoi che m’erano stati assegnati. Dopo pochissimi secondi concentrato verso quella direzione, tra il lentisco ed il corbezzolo intravidi la sagoma di un bel cinghiale, lo inquadrai nel Red Point e deciso strinsi il grilletto. Il cinghiale, centrato perfettamente nel collo, fece una capriola degna di una lepre andando a finire dietro ad un cespuglio. La muta arrivò subito dopo e glielo lasciai mordere, ma solo un poco. Era un bel verro di una settantina di chili, e da come puzzava sospettai che andasse già a scrofe in calore. Rimpiazzai la cartuccia sparata, raccolsi il bossolo usato e mi rimisi in attesa.
La cacciata ha tutto un’altro sapore quando hai già abbattuto un bel cinghiale, vero? Dai suoni che mi giungevano era chiara la metamorfosi che c’era stata negli anni. Quando, ad essere fortunati, si trovava una “scrofata” di quattro–cinque cinghiali in una macchia di cinquecento ettari. Ero proprio contento di essere ritornato alle mie origini: dove tutto era iniziato! Ad un tratto percepii il solito, famigliare rumore in avvicinamento così alzai di nuovo la BAR e puntai il Docter Sight III in quella direzione. Un cinghiale, più o meno delle stesse dimensioni del primo, s’ affaccio nello stradello e come i nostri sguardi s’incontrarono per lui fu troppo tardi. Avevo lasciato quei magnifici boschi pochi anni dopo aver ricevuto l’ambito premio come “LA MEJO CANNA” con ben quattro cinghiali ed una volpe abbattuti in una stagione, mentre ora ne avevo presi due in un solo giorno. Fui felice di constatare che i tempi erano davvero cambiati e per una volta in meglio. La Battuta durò ancora un’ora, poi il suono risolutore del corno ne decretò la fine. Il tableau finale fu di diciotto capi, tutti belli, dai quarantacinque chili in su. Un paio di porchetti li presero i cani ma ci si poté stare.
Ecco, questo è stato il mio ritorno a casa. Si perché quei boschi hanno e continuano a rappresentare molto per me. Le origini non si dimenticano mai, in tutti i campi. L’attuale gestione della Riserva Consorziale è molto valida, la dirigenza è composta da persone preparate che sono tutte anche dei Selecontrollori abilitati per la specie cinghiale. Alle vecchie tradizioni s’è finalmente aggiunta anche una nuova, vincente cultura venatoria. E questo, secondo me è davvero un gran bel risultato.
Marco Benecchi