Questo racconto lo abbiamo già pubblicato diversi anni fa nel nostro Blog, ma visto che ripropongono le serie televisivi del Commissario Montalbano e di don Matteo anche tre-quattro volte, allora ho deciso, con la sicurezza di far piacere a quei pochi lettori che non l’hanno già letta, di pubblicare nuovamente una delle più belle avventure che ho avuto la fortuna di vivere nelle Montagne del Paradiso. Dove ho potuto dimostrare che nonostante le mie origini “Maremmane” con tanta passione e tanto allenamento è stato possibile affrontare le cime più dure...
A volte i sogni si avverano. Ve lo posso garantire io, perché alla fine di settembre ho avuto la fortuna di vivere un’avventura che mai e poi mai avrei creduto possibile, e le emozioni che ho provato sono state talmente intense che sicuramente non le dimenticherò per tutta la vita. Quella che mi appresto a raccontarvi è la fedelissima cronaca di una spedizione di caccia in Kyrgyzstan, durata quasi tre settimane, dove ho dovuto dar fondo a tutta la mia preparazione fisica e ad una forza di volontà che non credevo di possedere. Quell’avventura è stata possibile grazie all’infinita generosità dell’ultimo “Re” Kyrgyso: Simone “Black” Giacomelli, che mi ha gentilmente invitato e al quale va tutta la mia immensa gratitudine e sincera amicizia. Dopo un volo di circa sei ore e mezza ed una poco piacevole tappa a Mosca (dove un panino ed una Coca mi sono costati 10 Euro!), come sono sceso dall’aereo ho trovato subito Simone ad aspettarmi. “Benvenuto Marco, rilassati che ai bagagli e a tutto il resto ci penso io". Per sbrigare le solite formalità burocratiche, al caro Black occorsero pochi minuti, visto che, all’ultimo momento, il capo scalo dell’Aeroflot per motivi “antiterroristici” aveva bloccato la mia CZ calibro 300 Winchester Magnum a Fiumicino. Lasciammo l’aeroporto di Bishkek in men che non si dica e come arrivammo a casa di Simone (un bell’appartamentino al centro della capitale Kyrgysa), mi venne presentato Tino, un simpaticissimo cacciatore di Brescia socio fondatore del SCI Italian Chapter, che desiderava abbattere la prestigiosa pecora di Marco Polo.
Il nostro programma era il seguente: per una decina di giorni avremmo cacciato tutti quanti insieme in una concessione ai confini con la Cina, lui la pecora di Marco Polo ed io l’ibex asiatico, poi ci saremmo trasferiti a nord, vicino al Kazakystan, per continuare la caccia allo stambecco e quella al capriolo siberiano. Caricammo tutte le nostre cose su due fuoristrada: una Opel Frontiera nuova di pacca ed una Uaz, molto più spartana ma di certo non meno affidabile. Frastornato dal fuso orario (quattro ore) e dalla stanchezza del viaggio, mi toccò sorbirmi anche ben venti ore d’automobile prima di giungere a destinazione. Durante il tragitto ebbi modo di vedere buona parte di quel meraviglioso paese e di conoscere il carattere dei suoi abitanti. Gente indomita, indurita da secoli di sofferenze, dall’ambiente ostile e dalle condizioni sociali appena vivibili. Ogni qualvolta desideravamo fare una piccola sosta per sgranchire i muscoli indolenziti o per espletare le funzioni corporali, Kambarbek, l’Outfitter locale e socio di Simone, parcheggiava la Uaz, bussava ad una porta a caso e subito eravamo accolti e rifocillati a dovere.
L’ospitalità kirgysa è assoluta, ma purtroppo i locali hanno ben poco da offrire ad un occidentale, a meno che non si ha una passione particolare per la carne di montone, per il Kumys (latte acido di cavallo) e per il burro nero di cammello! Il viaggio fino alla zona di Achsay, completamente attraversata dal fiume Coluv, fu un’avventura a sé. Passammo tre posti di blocco presidiati da soldati minacciosi, armati di Kalashnicov, ma in ciabatte! Rimanemmo impantanati nella steppa un paio di volte e alla Uaz cadde addirittura la marmitta. Che la nostra spedizione si sarebbe annunciata ricca d’emozioni non c’era alcun dubbio.
Finalmente arrivammo al nostro campo base, una sorta di baraccopoli dotata del minimo indispensabile, con il gabinetto all’aperto e con una stufa ricavata da un fusto di gasolio tagliato, che bruciava quasi tutto il poco ossigeno che avevamo a disposizione. Eravamo a quota 3500! E qui devo fare il primo appunto, preziosissimo per chi intende intraprendere un viaggio simile. Il campo era già ad alta quota e la caccia si sarebbe svolta intorno ai quattromila–quattromiladuecento. A quelle altitudini, una persona che non è abituata ha dei seri problemi a respirare regolarmente. Io, prima di recarmi in Kyrgyzstan mi ero preparato a dovere, con lunghe sessioni di palestra, trecking, ecc., perché sapevo che la caccia sarebbe stata estrema, ma sinceramente non mi aspettavo che avrei sofferto così tanto. In diverse occasioni la “sete” d’aria è stata insopportabile e, oserei dire, quasi preoccupante. Sempre per lo stesso motivo è quasi tassativo rimanere al campo uno o due giorni per ambientarsi, prima di cominciare a salire, altrimenti il disagio potrebbe essere notevolissimo.
Chiusa questa doverosa parentesi torniamo a noi. Anche se eravamo alla fine di settembre, la temperatura di giorno non superava mai i sei-sette gradi, mentre di notte si gelava. Il primo giorno lo sfruttammo per sistemare le nostre attrezzature e per ricontrollare la taratura delle armi, Tino quella della sua splendida Steyr Mannlicher calibro 8 x 68, mentre il sottoscritto, per forza di cose, quella della Voere calibro 6,5 x 68 Shuler prestatagli da Simone. Purtroppo avevo a disposizione soltanto delle munizioni ricaricate con un’anonima palla Soft Point, con molto piombo esposto e dal peso di soli 100 grani, non certo l’ideale per abbattere pulitamente un bestione di centocinquanta chili, specialmente se tirato a lunga distanza. Per quanto riguarda il discorso “Armi e calibri per la caccia allo stambecco asiatico” intendo dedicargli un articolo a parte.
Il secondo giorno arrivarono le nostre guide con al seguito un branco di bellissimi cavallini mongoli, i veri eroi ed i soli protagonisti di quella impegnativissima caccia. E’ impossibile descrivere cosa sono capaci di fare quei generosissimi quadrupedi, basti pensare che non esiste praticamente nessun posto dove non siano in grado di arrivare. All’alba del terzo giorno mi fu presentato Sarè, quello che sarebbe stata la mia fedele guida per tutta la durata della caccia, e mi fu affidato un bel cavallo marrone. Sarè è stato il migliore cacciatore che ho conosciuto. Era qualcosa di veramente eccezionale. Trentadue anni appena compiuti, fisico asciutto ed atletico, vestito con degli abiti logori e leggeri e con ai piedi degli stivali di gomma da due euro calzati senza pedalini, aveva l’agilità e la forza fisica di uno stambecco. Dopo avermi aiutato a salire in sella si assicurò che stessi comodo, si caricò il mio zaino sulle spalle, accese una pestilenziale sigaretta russa, saltò sul suo cavallo e s’incamminò verso le montagne. Contemporaneamente anche Tino, Simone, Kambarbek e due accompagnatori c’imitarono, ma presero tutt’altra direzione. Ci salutammo tranquillamente come se avessimo dovuto rivederci da lì a poche ore, ma la realtà purtroppo fu ben diversa ed in seguito rimproverai Simone per non avermi avvertito in anticipo su cosa mi aspettava. Io e Sarè, dopo una cavalcata di circa cinque ore e dopo aver attraversato non so quanti monti, arrivammo presso una casetta seminterrata. Era talmente brutta, fatiscente ed inospitale che non ci avrei fatto dormire per una notte neanche i miei setters. Invece, con stupore, vidi che ne uscirono delle persone, un signore anziano sui settant’anni, sua moglie, suo figlio, la nuora e tre bambini, uno di pochi mesi, uno di tre anni e l’altro di quattro. I bimbi mi diedero la mano sussurrando “Salaam” ed io ebbi l’impressione di toccare un ghiacciolo! Erano scalzi, con il moccolo al naso ed avevano le guance livide dal freddo. Perché dei bambini devono vivere in quel modo? Sarè parlò brevemente col giovane padre che subito dopo corse a sellare il suo cavallo. Si chiamava Ulan, aveva venticinque anni e non c’erano dubbi che era stato forgiato dallo stesso stampo di Sarè. Riprendemmo la marcia in tre e tutte le volte che la mia guida lo riteneva opportuno smontavamo dai cavalli e cominciavamo a binocolare alla ricerca degli stambecchi.
Era ormai pomeriggio inoltrato quando in lontananza scorgemmo un grosso branco. Erano diciassette e tutti maschi. Io feci scorrere una pallottola in canna, ma Sarè, nel vedere quel gesto, scosse la testa. Mi fece capire che per giungere a tiro, sempre che ci fossimo riusciti, avremmo fatto notte. Rientrammo invece alla casa–grotta, dove gentilmente declinai il Kumis, il burro nero ed il montone bollito che mi furono offerti, per mangiare una mela, un pezzo di cioccolata e due creckers che avevo nello zaino e poi mi coricai vestito a terra su una specie di pagliericcio fatto di pezzi di feltro e di coperte variopinte. In un’unica stanza di sette metri per cinque, la stessa che fungeva da salotto, da cucina ed anche da bagno, visto che durante la notte i bambini, a turno, per poco non mi pisciarono addosso, dormimmo tutti insieme! Fu un incubo. I bimbi non smisero mai di piangere. Sarè “mi disse” che avevano il mal di gola. Rimpiansi di non avere con me la mia nutrita scorta di medicine che, purtroppo, era rimasta al campo base. Alle quattro eravamo tutti in piedi. Accettai un pò di thé caldo, mangiai ancora crackers e cioccolato ed uscii all’aperto a respirare l’aria purissima. Nel cielo c’erano tremila miliardi di stelle. Sarè e Ulan arrivarono subito dopo con i cavalli già sellati. Io non parlavo il kyrgyso e loro non parlavano l’italiano, quindi perché sprecare il fiato? C’incamminammo al buio lungo una pista nota soltanto a Sarè. In alcuni tratti il terreno era talmente ripido e scosceso che, non mi vergogno a dirlo, per passare chiudevo gli occhi e lasciavo che il cavallo procedesse da solo.
Appena ci fu luce a sufficienza iniziammo la perlustrazione delle rocce. La ricerca degli stambecchi andò avanti fino a sera senza che riuscissimo a scorgerne uno. Rientrammo alla nostra casetta che era notte inoltrata, io ero sfinito ed al colmo della gioia trovai ad attendermi una bella tazza di latte acido di cavallo e una scodella di burro nero di cammello!! A quegli ospitali signori sarò sembrato maleducato ma quella roba non sarei riuscito a mangiarla neanche sotto anestesia. Diedi fondo alle mie magre provviste e tentai di dormire, consapevole del concertino che anche quella notte i tre bimbi avrebbero cantato per me.
Il giorno dopo il copione si ripeté, fin quando Sarè, durante una delle nostre solite soste perlustratrici, m’indicò la cima di una montagna lontana oltre un chilometro e pronunciò una sola parola: “Stambecchi”. Ora che sapevo dove guardare li vidi anch’io. Col mio nuovissimo 10 x 42 contai sei capi, ma da quella distanza, (molto superiore alla portata del telemetro incorporato) non riuscii a capire se fossero maschi e se avessero dei buoni trofei. Sarè diede istruzioni a Ulan, che partì veloce come un gatto e a me fece segno di seguirlo. Anche se procedevamo quasi in piano, ogni respiro era una sofferenza. Era come se qualcosa di solido mi premesse sul petto impedendomi di respirare. Fui persino costretto a togliermi il binocolo dal collo e mettermelo in tasca. Dopo aver percorso quattro–cinquecento metri ci fermammo a ridosso delle rocce e Sarè, sempre più a gesti che a parole, mi chiese se fossi stato in grado di colpire un animale qualora si fosse trovato sopra ad piccolo pianoro che, telemetrato, distava circa 295 metri. Con un’alzata di spalle gli risposi che non lo sapevo, ma che ci avrei provato anche se a quella distanza il 6 x 42 che avevo sulla carabina mi sembrava un pò insufficiente. A quel punto Sarè espose il suo piano. Ulan era partito con l’intento di spaventare gli stambecchi che, una volta messi in movimento, avrebbero cercato di raggiungere i loro rifugi sulle cime più inaccessibili, attraversando proprio il pianoro indicatomi. Non ebbi nessun dubbio sulla bontà della sua strategia, così preparai la Voere e mi sedetti in attesa.
Dopo quasi un’ora Sarè mi diede una gomitata. Gli ibex stavano venendo verso di noi! Ulan ce li stava spingendo contro come se fosse un buon segugio da cinghiale. Imbracciai la carabina e tolsi la sicura. Gli animali procedevano lentamente ma non passò molto che il capobranco apparve proprio dove speravamo comparisse. Sarè mi fece segno di aspettare poi, quando gli stambecchi furono al centro della piccola piana, sussurrò: “Shot, shot”. Il capobranco era quasi di punta e leggermente in basso, lo mirai filo schiena, armai lo stecher e strinsi il primo grilletto. Lo stambecco s’impennò, barcollò e piegò verso destra, mentre tutti gli altri scapparono in salita dalla parte opposta. Sarè mi batté sulla spalla, ma io gli feci notare che il selvatico se n’era comunque andato: “No problema”, mi rispose accendendosi una sigaretta. Contento lui, contenti tutti. Mentre il kyrgyso fumava cominciò a nevicare e nel giro di pochi minuti ci ritrovammo nel bel mezzo di una tormenta. A quel punto Sarè si alzò di scatto e mi chiese in prestito la carabina ed io gliela consegnai senza protestare insieme ad una manciata di cartucce, perché in quelle condizioni non ero certo in grado di seguirlo. Mi accoccolai ringraziando la qualità dei miei indumenti e cercai invano di dare le spalle alla tormenta, cosa impossibile perché il vento soffiava praticamente da tutte le parti. Passò un’ora, un’altra e poi quando ormai ero quasi assiderato arrivò Ulan. Di Sarè invece nessuna traccia. Ulan mi sollecitò a raggiungere i cavalli e d’incamminarci verso casa perché l’intensità della tormenta era veramente preoccupante.“E Sarè?” gli chiesi. Ulan sorrise e mi fece capire di non preoccuparmi perché in qualche modo il suo compagno se la sarebbe cavata.
Dopo tre ore d’inferno, in preda ad un tremore incontrollabile, arrivammo alla nostra bella casetta. Fu come entrare all’Hilton! Persino il pianto dei bimbi mi fu di conforto! Anche se il peggio era passato non riuscii a rilassarmi perché il mio pensiero era sempre per Sarè, tutto solo in mezzo alla tormenta a piedi e senza viveri. Se quello era il prezzo che dovevamo pagare per portare a casa il tanto agognato trofeo, per me poteva anche rimanere in Kyrgysia. Cenammo come se niente fosse e poco dopo, vinto della fatica, mi addormentai. Verso le tre di notte sentii aprirsi la porta, accesi la MagLite e cosa vidi? Uno spettro. Era Sarè ed assomigliava più ad un pupazzo di neve che ad un essere umano. Stava benissimo, ma era triste perché non aveva trovato il mio ibex. Mi scappò un bel: “E chissene frega”.
Al mattino dichiarai forfait. In quelle condizioni non potevo più andare avanti e loro capirono. Sarè sarebbe ripartito alla ricerca del selvatico ferito mentre Ulan mi avrebbe riportato al campo base. Al “Camp” Simone e Tino mi accolsero come un reduce di guerra. Ascoltarono le mie disavventure e mi raccontarono le loro. Tino aveva avvistato moltissime pecore di Marco Polo ma, un po’ per sfortuna un po’ perché non aveva avvistato grandi trofei, ancora non era riuscito a sparare. Memore del tempo a mia disposizione, gli chiesi se potevo andare a caccia con lui perché per il momento con gli stambecchi avevo chiuso. Inseguimmo insieme la prestigiosa pecora per tre giorni finché Tino riuscì a guadagnarsi finalmente un buon trofeo. Il mattino seguente di buon ora Sarè ritornò con le corna del mio stambecco che oltretutto erano piuttosto modeste, proprio mentre stavamo preparando i bagagli per lasciare la zona di Achsay ed il fiume Coluv. All’unanimità avevamo deciso che era giunta l’ora di andare a caccia nella meravigliosa concessione di Simone, il parco di Chon–Chemin (il grande catino) che si trovava a circa 130 Km da Bishkek ai confini con il Kazakystan. Il governo kyrgyso gliel’ha affittata per dieci anni, è grande circa duecentomila ettari e si estende per quasi centoquaranta chilometri. E’ il regno dei forti stambecchi, dei meravigliosi caprioli siberiani, degli ular e delle cotorne, ma ci sono anche fagiani e starne.
Giunti a destinazione m’accorsi subito che come organizzazione e come habitat eravamo passati dalle “stalle alle stelle”. La prima sera cenammo addirittura con spaghetti alla carbonara e braciole di maiale, il massimo per essere in un paese mussulmano. Il mattino seguente facemmo una prima uscita: Simone, io, Tino e Cumpum, un altro “Rambo” kyrgyso. Dopo aver percorso una quarantina di chilometri con la UAZ inforcammo i nostri cavallini e partimmo all’avventura. La giornata era stupenda e lo spettacolo offerto dalle montagne era mozzafiato. Sulle cime c’era talmente tanta neve da farmi benedire la decisione di aver portato gli occhiali da sole. Trovammo tantissime tracce di stambecchi ma riuscimmo ad avvistare un grosso branco soltanto verso le due del pomeriggio. “Black che facciamo? Vogliamo tentare l’avvicinamento?” gli dissi “ “Marco, quegli animali sono tabù per noi. La valle è il confine con il Kazakystan. L’ultima volta che l’ho oltrepassato le guardie mi hanno mitragliato!!” Rispose Simone. “Io non posso proprio venirci perché se mi beccano di nuovo, oltre alla galera rischio anche la licenza, ma se tu vuoi tentare vai pure”. Cumpum era indeciso se seguirmi o meno, ma quando vide i cinquanta dollari che gli porsi (cinque mesi del suo stipendio) gli s’illuminarono gli occhi. Senza troppe pretese ci avvicinammo a cavallo fino a sei–settecento metri dagli animali e poi, dopo essermi tolto lo zaino e la giacca pesante informai la mia guida che avrei tentato di portarmi a tiro da solo. Lui sarebbe rimasto lì ad aspettarmi, pronto a venirmi a prendermi coi cavalli se avessi sparato.
Dopo aver controllato la direzione del vento, mi mossi sfruttando come copertura gli avvallamenti del terreno e le poche rocce e dopo un’ora di “passo del leopardo” riuscii a portarmi a circa 250–270 metri dal branco. Non riuscii a capire quale fosse il capo con il trofeo migliore, così presi di mira quello che mi sembrava essere il più grosso e che, oltretutto, si presentava meglio. Regolai i piedini del bipede, cercai di dominare l’affanno, armai lo stecher, mirai la spalla e sparai. Lo stambecco accusò il colpo ma non cadde. Barcollò ma riuscì ugualmente a fuggire imitato da tutto il branco. Ricaricai veloce e m’accorsi che un grosso maschio con pochi salti era andato alla testa dei fuggitivi. Sicuramente doveva essere il capobranco, al quale spettava il compito di guidare gli altri al sicuro nei loro inaccessibili rifugi sulla montagna. Senza curarmi del ferito, presi di mira il maestoso animale ed appena fece un piccolo stop lo colpii alla spalla. Fu come sparare ad un sasso. Sentii distintamente la palla impattare su quel corpo massiccio ma lo stambecco non fece una piega. Percorse ancora qualche passo e come si fermò di nuovo ricevette una seconda palla, ma il risultato fu lo stesso. Ma chi è, Highlander? Pensai. Ricaricai ancora e feci in tempo a tirargli una terza pallottola che finalmente l’abbatté facendolo scivolare tra le rocce. Era finita.
Finalmente, dopo tanto penare, avevo visto uno stambecco cadere. Sinceramente non so se avrei appeso al muro il trofeo che mi aveva portato Sarè, perché tutte le mie preziose testimonianze di caccia (come io considero tutti i trofei) devono sempre essere accompagnate dalle immancabili foto di rito per rimanere impresse indelebilmente nel mio cuore. Uscii dall’anfratto da dove avevo sparato per andare sull’anshuss, dove avevo colpito il primo stambecco, per vedere se ci fossero delle eventuali tracce di sangue. Percorsi appena un centinaio di metri ed in mezzo alla prateria vidi spuntare due bellissime corna. Raggiunsi il capo per accertarmi se fosse effettivamente morto, ne valutai rapidamente il trofeo poi corsi (si fa per dire) a guardare da vicino anche l’altro.
Come lo raggiunsi m’impressionarono due cose: la sua mole imponente ed il suo trofeo eccezionale. Mi sarei accontentato di uno lungo un metro, mentre ne avevo davanti uno di oltre centotrenta centimetri! Fui preso da una smania terribile, non vedevo l’ora di scattargli qualche foto. Per fortuna Cumpum arrivò prima del previsto con tutta l’attrezzatura al seguito. Onorai i due animali, scuoiai il più bello, li eviscerai entrambi e poi con il prezioso carico al seguito raggiungemmo Black e Tino per raccontargli come si era svolta la memorabile caccia.
Per il rimanente soggiorno cacciammo lo stambecco senza successo ma devo anche ammettere con poco impegno. Sia io che Tino avevamo ampiamente raggiunto i nostri traguardi e si sa: “Chi si accontenta gode”. Al mio rientro giurai solennemente che non sarei più tornato a caccia in Kyrgyzstan perché era stata veramente un’impresa troppo dura, ma devo confessarvi che quando l’ho fatto avevo le dita di ambedue le mani incrociate!
Ah dimenticavo, grazie ancora Simone…
Marco Benecchi