Capalbiaccio, 25 gennaio duemilasette. Sembrava un giorno come un altro, adatto per fare una battuta al cinghiale come un’altra, ma non fu così. Quel giovedì mattina ebbi la conferma (semmai ce ne fosse stato bisogno) che gli amici, quelli veri, esistono ancora. Ricordate quel periodo? In Italia coincise con un repentino cambiamento delle condizioni meteorologiche. In un paio di giorni si passò da un clima primaverile all’inverno vero e proprio, con un drastico calo della temperatura abbinato a fortissimi venti con pioggia e molte persone si trovarono impreparate. In compenso, le tanto agognate precipitazioni (almeno per i contadini e per i cacciatori di cinghiali!) avevano finalmente reso possibile la tracciatura dei selvatici, così io e Giampiero avevamo deciso di organizzare per quel giorno una grossa battuta con lo scopo di anticipare l’imminente chiusura. Era l’occasione buona per salutare il vecchio anno venatorio insieme agli amici ed ai compagni della squadra. Ma quando feci il solito giro di telefonate, non so se le risposte che ricevetti mi suscitarono più rabbia o ilarità. “Le previsioni danno neve anche a bassa quota. Come facciamo a spostarci con le macchine, specialmente io che non ho le catene!”. “Ma fa un freddo cane (4-5 °!)”. “E’ pieno di fango in giro!”. “Siete sicuri che i cinghiali ci sono?”. Queste furono alcune delle risposte che ricevetti da parecchi cacciatori per declinare l’invito, ma loro almeno furono sinceri, perché altri, per non darmi un secco no, s’inventarono le scuse più stravaganti: “Devo riparare un armadio rotto”. “Mi dispiace, ma mia moglie ha il mal di pancia” “Scusa Marco, ma il 25 proprio non posso perché devo portare il cane dal veterinario per fargli tagliare le unghie!”. Ok. Tanto peggio, Giampiero ed io contammo gli irriducibili e ci ritrovammo con ventisette poste ed una decina di canai. Per fare “Il Pozzo” bastavano, e visto che eravamo relativamente pochi, decisi d’invitare anche Adolfo, che quell’anno, per motivi di lavoro, a caccia c’era andato veramente poco.
I vecchi proverbi non sbagliano mai: “Il bel tempo si aspetta in campagna!”. Contro ogni previsione, per il 25 di gennaio il tempo era ritornato sereno. Nel cielo c’erano i soliti quattro minacciosi nuvoloni, ma per un “puntorossista” come il sottoscritto (con poca luce si prende meglio la mira), erano più utili che dannosi. Devo ammettere che anch’io per dar retta al colonnello di turno mi ero bardato come se fossi l’omino della Michelin, ma appena il sole prese a salire, anche se ero fermo alla posta, dovetti addirittura togliermi il giaccone pesante. Giampiero ci aveva schierati come da manuale, piazzando i tiratori migliori nelle zone più transitate e/o dove il tiro sarebbe potuto risultare più difficile e gli anziani dove ci fosse meno da camminare. Neanche a dirlo, a me fu affidata una posta che definirla brutta era fargli un complimento. Non solo avevo una visuale scarsissima, ma come mi resi conto in seguito ero praticamente di “controposta”. Il ruolo di “controposta” si ricopre spesso in Maremma. Serve per tentare di recuperare eventuali animali sbagliati o quelli che hanno attraversato il fronte armato in posti imprevisti.
Non era la prima volta che volutamente mi mettevo di controposta, specialmente se eravamo in pochi e le poste era piazzate rade tra loro, ma visto che eravamo quasi alla chiusura della caccia, devo ammettere che quel giorno mi rodeva un po’ fare il “recuperatore”. Comunque, da buon soldato, obbedii agli ordini senza commentare, come sempre! Un buon cacciatore di cinghiali, prima del suono del corno o del via dato per radio, ripete automaticamente e alla perfezione sempre le stesse azioni. Controllai dov’erano i vicini di posta, mi feci vedere da loro, definimmo gli angoli di tiro, pulii la zona sotto i piedi, feci anche un piccolo capanno, caricai l’arma e mi sedetti su un comodo sgabello pieghevole, immobile con tutti i sensi all’erta, con la mia bella carabina carica, senza sicura e con il Red Point già acceso tra le gambe.
Vi è mai capitato di vedere dei cinghiali arrivare verso le prime poste prima ancora che il Capocaccia abbia finito di piazzare le ultime? A me si, quindi mai farsi cogliere impreparati. Alzai gli occhi e quando vidi il cielo sereno e le cime degli alberi immobili, mi venne da ridere pensando alle previsioni pessimistiche annunciate dagli “esperti” meteorologi. Ancora non l’abbiamo capito che a dispetto dei computer, dei satelliti, delle sonde aerospaziali, ecc, la natura fa sempre come gli pare.
Io non credo a quei cacciatori di cinghiali che sostengono di divertirsi soltanto ad ascoltare le canizze, che si accontentano di godersi la spettacolarità della braccata e l’ambiente cameratesco che regna nella squadra. Credetemi, il novanta per cento dei partecipanti ad una battuta ha un solo desiderio: quello di tirare al cinghiale! Punto e basta. Anch’io come seppi per radio che erano state liberate le mute e che la cacciata era cominciata, non mi vergogno a dirlo, “gufai” che almeno una delle poste facesse qualche piccolo sbaglio. Mi sarei accontentato di veder correre almeno un cinghiale (bugiardo!) anche se poi, tutte le volte che ne vedo uno, riesco sempre a tirargli. Il bello di quando si batte una zona poco estesa e con pochi di cacciatori è che la cacciata te la gusti tutta, dall’inizio alla fine.
I “tigrati” maremmani di Giampiero scovarono i cinghiali prima ancora che le ultime mute fossero fatte scendere dai fuoristrada. Nel giro di dieci minuti la macchia del Pozzo “bolliva”! Dopo quasi quarant’anni di Cacciarelle mi si rizzano ancora i peli sulla nuca e sulle braccia quando sento molti cani a canizza! Per non parlare poi se quella canizza viene spedita proprio verso di me. Automaticamente mi alzai, impugnai l’HK 770 308 W e misi in azione tutti i miei radar. Per un attimo dimenticai la linea Maginot che avevo davanti, ma solo per un attimo, perché una scarica di fucileria mi fece sobbalzare oltre che deludere le mie aspettative.
“Chiamate i cani che è morto”, sentii nell’auricolare del Midland, e mogio mogio mi rimisi a sedere. Nel giro di un paio d’ore la suddetta azione di caccia si ripeté per altre quattro volte e sempre con lo stesso risultato. Contai un numero imprecisato di colpi, ma dal percorso che facevano i cinghiali in fuga, praticamente correndo paralleli alla linea delle poste, se non li abbatteva un cacciatore lo faceva quello a fianco. Era in corso una gran bella cacciata ed io, anche se mi ero goduto bene tutte le canizze, stavo per cadere nello sconforto. Quanto mi sarebbe piaciuto mettere il punto rosso addosso ad un cinghiale, specialmente durante quella battuta che poteva essere l’ultima per quell’anno. Nel taschino della camicia vibrò il mio cellulare. Chi poteva essere? Quando hai famiglia (ed in particolare un figlio di diciassette anni sempre in sella ad un boosterino modificato) è sempre bene controllare chi chiama. Era Adolfo! Che voleva? E soprattutto, se aveva voglia di dirmi qualcosa, perché non me la diceva per radio?
“Come mai questa telefonata? Ti si sono scaricate le pile dell’Alan?”. “No. Tranquillo, è tutto a posto. Volevo soltanto dirti una cosa, ma non mi sembrava il caso di dirtela per radio. Io ho preso un cinghiale e ne ho visti altri cinque, mentre Mario sotto di me, ne ha presi due, ma ha tirato a quattro! Come va da te?” “Tutto OK, a parte il fatto che sto meditando il suicidio. Non capisco perché ho caricato l’Heckler, vista la piega che ha preso la cacciata, potevo benissimo lasciarla nel fodero. Non vedo l’ora che la battuta finisce, così almeno potrò vedere un cinghiale, anche se morto!” “Era proprio di questo che volevo parlarti. Perché non vieni da me, ci mettiamo in due alla mia posta?” Sono cose che non si fanno e che non ho mai fatto, ma accettai senza pensarci su un attimo. “Lascio tutto qua ed arrivo!”. Sfruttai un momento che le canizze erano lontane ed in pochi minuti raggiunsi il generoso compagno di battuta.
Adolfo mi accolse con un sorriso indicandomi con la canna della sua 770 (anche lui ha un’HK praticamente identica alla mia, compreso il punto rosso) una sagoma nera in mezzo al campo. “Quanti colpi?”. Chiesi. “Uno solo. L’ho gelato con una delle tue (le munizioni gliele ricarico io) Hornady SST da 150 grani. Sono stati Mario & C. gli artefici di tutte quelle raffiche”.
Ci mettemmo quasi spalla e spalla in silenzio, godendo della nostra rispettiva compagnia, ognuno assorto nei propri pensieri. Ed i miei, neanche a dirlo, erano rivolti all’amico che avevo a fianco. Tornai indietro con i ricordi e non mi venne in mente nessuno che, in passato, mi avesse mai fatto un invito simile. Era tardi, ma la battuta era ancora in corso e le canizze sempre in piedi, ma non mi facevo comunque illusioni. Il gentile gesto di Adolfo era stato sufficiente a mettermi di buon umore.
Ad un tratto sulla nostra sinistra entrarono di nuovo in azione le mitragliatrici. Capisco, approvo, ma non per questo giustifico necessariamente i colpi “sparpagliati” a caso. A Mario ed al suo vicino di posta, mancavano soltanto i treppiedi per essere perfetti. Adolfo sorrise e sussurrò: “Vuoi scommettere che se ne fanno passare un altro?”. Non finì neanche la frase che ecco apparire nel campo un bel cinghialotto di una quarantina di chili. Proprio da porzione! Veniva verso noi due a circa tremila chilometri l’ora. Adolfo mi sfiorò il gomito incitandomi ad avanzare. Non bisognava essere dei geni per capire che quel cinghiale era tutto per me. Mi riproposi di ringraziare l’amico in seguito, ma in quel momento dovevo impegnarmi e non poco. Cercai d’incannare il missile nero in arrivo di punta, ma aspettai che si sfiancasse un poco prima di tirare il grilletto. La “mia” SST da 150 grani lo raggiunge perfettamente nel collo facendolo ruzzolare come una lepre. Roba da non credere! Ero riuscito a tirare un colpo anch’io, ma soltanto grazie al cortese e nobile gesto di un amico. Un amico e basta, né vecchio, né grande, né nient’altro.
“Amico” è una parola troppo spesso usata a sproposito o impropriamente, quando in molte occasioni sarebbe meglio sostituirla con: conoscente, compagno o collega. Adolfo è mio Amico, ed io ne sono orgoglioso, anche perché ha saputo dimostrarmelo nel migliore dei modi, senza che nessuno gli chiedesse niente. Ma in seguito mi venne un piccolo dubbio, che forse il suo memorabile gesto non era stato del tutto disinteressato, perché, mentre stavamo rientrando a casa, mi chiese: “Pensi che me le sono meritate una cinquantina di Hornady”?!
Marco Benecchi