Mauro Alessandro Fabris è un vero professional Hunter. Attualmente risiede in Tanzania, dove esercita la sua attività, accompagnando a caccia i tanti cacciatori che frequentano le grandi riserve africane. Riserve naturali, dove la caccia entra dalla porta principale ed è utile, considerando gli elevati introiti che ne derivano, a mantenere integri habitat cruciali per la vita selvaggia, favorendo al contempo lo studio e la consistenza numerica di alcune importanti specie minacciate in primis dal bracconaggio. Pensiamo ad esempio alla piaga del commercio illegale dell'avorio, che, causa un mancato coordinamento tra Stati spesso ingovernabili, in alcune aree sta portando sulla soglia dell'estinzione elefanti e rinoceronti. Delinquenti senza scrupoli, certo. Ma bracconieri in Africa, lo si può diventare per mera necessità se non esiste quel tessuto economico e sociale, che può essere portato anche dal turismo dei bianchi alla ricerca di un'avventura africana, a caccia.
“La caccia – conferma Fabris – è un'attività favorevole alla gestione della natura e dell'ambiente se ben condotta e gestita”. In Tanzania, tramite i safari autorizzati dallo Stato, - spiegava lo stesso Fabris in un incontro al Rotary Club di qualche anno fa - si riescono ad ottenere molteplici aspetti positivi quali il controllo numerico degli animali (con l’abbattimento mirato di capi da parte dei cacciatori ospiti partecipanti ai safari), lo sviluppo turistico legato al turismo animalistico, l’integrazione delle popolazioni locali in questo processo, la caccia ai bracconieri. Durante i safari all’abbattimento di un animale (sempre tra quelli segnalati da abbattere per cui vecchi, malati, che non si integrano nei gruppi o al termine del suo ciclo produttivo) corrisponde una tassa, il 30% della quale va alle popolazioni locali, così come la stessa carne dell’animale ucciso. L’abbattimento di meno dell’ 1% dei capi permette di sovvenzionare la protezione degli altri animali, la ricerca, la lotta al bracconaggio e promuove la stabilità economica alle popolazioni locali. I safari – sostiene Fabris - sono meno invasivi (circa 80 cacciatori all’anno) e più remunerativi del turismo di massa e permettono di dare lavoro a migliaia di abitanti della zona, che esercitano così anche il controllo sui bracconieri.
Mauro, come la maggior parte dei cacciatori, alla caccia è arrivato grazie al padre. E a quella iniziale passione fa ancora riferimento. Le sue cacce preferite infatti sono ben poco esotiche: ci confessa di amare in particolare quella al beccaccino con cani da ferma e al cinghiale in piccole battute. Avrebbe potuto parlarci delle sue mille avventure vissute a caccia di temibili felini o grandi erbivori africani, ma sceglie di raccontare un'esperienza indimenticabile al cospetto della regina: una beccaccia, alzata quattro volte sotto ferma, partita quattro volte lunga poi rimessasi contro un muro a secco. “I cani – ricorda Fabris - la fermarono ancora e lei aprì la coda e mi guardò per diversi secondi prima di partire. Non sparai, erano troppo belli quei momenti che mi aveva regalato”.
Infine un auspicio: “Il cacciatore può e deve contribuire alla salvaguardia dell'ambiente. Con l’educazione al rispetto della natura, partecipando attivamente”. In questo senso il lavoro delle associazioni è fondamentale: occorre, secondo Fabris, “responsabilizzare i cacciatori al controllo e far capire che il furbo di turno fa solo del male all’ambiente venatorio già molto discusso e in precarie condizioni di stabilità”.