Non è il massimo dell'obbiettività l'articolo di Margherita D'Amico, pubblicato nella sezione dei blog di Repubblica. L'argomento, la caccia grossa, è trattato con una certa superficialità, che arriva a suggerire delle conclusioni un tantino ardite. Del tipo: “mentre si trepida per la sorte di tante specie minacciate” e laddove si cerca disperatamente di contrastare il bracconaggio, “la caccia privata può abbattere”, basta pagare. Questo il senso del pezzo, che parla di cacciate fruttuose di orsi, leoni, elefanti pubblicizzate dalle varie agenzie turistico venatorie, le cui foto di trofei pubblicate sui vari siti web, testimoniano “un'attività piuttosto sostenuta a dispetto della crisi”.
Se la giornalista, scrittrice e ambientalista D'Amico si fosse presa la briga di approfondire l'argomento, avrebbe scoperto che in molti di questi paesi, soprattutto quelli africani, la caccia grossa è realmente sostenibile, perchè permette di tenere lontano il bracconaggio, che è davvero causa di situazioni al limite dell'estinzione per specie come i rinoceronti, gli elefanti e i leoni, laddove non arrivano le grandi organizzazioni governative con i loro parchi sorvegliati. La verità è che è proprio la caccia dei bianchi, in molti casi a preservare la sopravvivenza delle specie del luogo, anche attraverso i soldi dei cacciatori di trofei, che portano ricchezza e occasioni di sviluppo per le popolazioni locali.
Tra i commenti all'articolo, se ne legge anche uno di Marco Ramanzini, direttore responsabile de Il Cacciatore Italiano, il periodico di Federcaccia. “Vorrei parlare un attimo della Tanzania e di un articolo apparso qualche mese fa". L'articolo in questione è “Salvare i leoni cacciandone alcuni Realismo ambientale dalla Tanzania” pubblicato dal Corriere della Sera a firma di Dino Messina. "La storia è semplice ma decisamente nuova per le orecchie di un certo ambientalismo di casa nostra, smentito dal responsabile per i parchi e la conservazione delle specie selvatiche della Tanzania, Alexander N. Songorwa, che ha rivolto un pubblico appello sulle colonne del New York Times affinché non si blocchi il turismo venatorio diretto verso il proprio Paese".
In quell'articolo si menzionava che Songorwa si rivolse direttamente all’ufficio degli Stati Uniti che si occupa di protezione e gestione faunistica, il Fish and Wildlife Service, invitandolo a non inserire il leone tra le specie in pericolo constatando come una decisione restrittiva rischierebbe di mettere in difficoltà i programmi dello stato africano per la tutela degli stessi leoni e di una serie di altri animali selvatici. Vietare la caccia a questi felini, evidenziava l'articolo, renderebbe impossibile per gli appassionati riportare a casa i trofei, spingendoli a scegliere altre mete dove esercitare la caccia e questo significherebbe per la Tanzania una rovinosa perdita economica che andrebbe ad inficiare gli sforzi del Paese per la conservazione di tutta la specie.
I numeri spiegano meglio la situazione: mediamente in Tanzania vengono permessi 200 abbattimenti l'anno, si tratta per lo più di vecchi leoni, che valgono almeno 2 milioni di dollari ogni anno, (complessivamente lì il turismo venatorio comprese le altre specie, frutta in media 75 milioni ogni tre anni). Il che significa che il sacrificio di quei leoni permette la sopravvivenza degli altri 16800 che vivono nei parchi protetti della Tanzania (e che rappresentano il 40% di tutti quelli che vivono nel continente africano). C'è un modo diverso di essere ambientalisti, ma in Italia sembra impossibile capirlo.