Fatico a ricordarmela, la mia prima licenza di caccia. Anche perché a caccia ci andavo lo stesso, prima di esservi autorizzato. Posso dirlo, perché dopo più di 60 anni il reato, se reato era, è prescritto. Prescritto, cancellato dalla passione prima che dal tempo. Vediamo. Non avevo esempi in famiglia, tranne un cugino più grande che a caccia ci andava con i suoi amici. Al massimo, mi lasciava accarezzare i suoi fucili, annusare i bossoli sparati. Quindi posso dire che come cacciatore sono figlio di me stesso.
La passione è nata dentro di me, è germinata come una malapianta, ha travolto altri sentimenti, altre emozioni. E’ cresciuta insieme ad altre passioni trasgressive, com’era la caccia senza licenza.
Ho imparato ad aspettare la lepre al balzello come aspettavo le ragazze all’uscita di scuola. A sparare a tutto quello che si muoveva. A correre dietro a ogni femmina. Oggi si direbbe che non sta bene, che quella non è caccia, né amore, ma rapina, saccheggio. Ma la passione giustificava tutto. Quando ebbi l’età, non faticai ad ottenere il permesso scritto di mio padre. Avevo 16 anni e soldi pochi.
Comprai una doppietta Beretta cal.12, a cani esterni, già con le carie, 76 di canna. Sparavo, tanto, sparavo a tutto, quindi sparavo bene. Le cartucce me le facevo da solo, comprando polvere, pallini e detonatori e raccogliendo i bossoli al Tiro a Volo Lazio, a un passo da casa. Dal cugino sapiente misurai le dosi e mi costruii i mestolini per la polvere e i pallini. Uscivo da casa di notte, salivo sul filobus 102 col fucile in spalla e le cartucce in vista. L’appuntamento era a Termini, al bar della stazione, a bere caffè e sambuca Molinari con gli altri cacciatori.
Le destinazioni: sulla linea Roma- Nettuno, Macchia Vaselli, Pomezia, Campo di Carne. Sulla linea Roma-Civitavecchia, Maccarese, Torre in Pietra, Macchia Tonda. I carnieri erano scarsi: senza cane e senza sapienza, giusto qualche animale nero, qualche anatra suicida, e quando andava assai bene, due quaglie e una lepre alzate coi piedi. Ma allora di animali ce n’erano tanti e cacciatori pochi. Pensate che il treno Roma-Parigi, via Ventimiglia, fermava a Maccarese per raccogliere le anatre raccolte con le reti dai cacciatori di professione e destinate alle Halles di Parigi (perché i negozi di pollame e selvaggina di piazza Vittorio e via del Lavatore ne assorbivano poche decine di pezzi).
Oggi Maccarese è parco, è tutto cementificato, non si caccia più e di animali non ce ne sono, se non in qualche piscina superstite. Poi un paio di amici si fece la macchina. Io lavoravo al Giornale d’Italia. Il sabato entravo alle 6 del mattino e uscivo alle 3 del mattino successivo. Passavano a prendermi i miei amici Nuccio e Pier Paolo con l’Ardea, i cani, i fucili, gli stivali. Mi cambiavo in cortile e via, lungo l’Appia e la fettuccia di Terracina sino a Fondi. Lì spaludando, facendo caccetta lungo i canali con i barchini e nascosti sulle barene dietro un tamericio, arrangiavamo discreti carnieri.
Poi scoprii il Velino grazie a Nuccio che era abruzzese, e così conobbi starne e coturnici. Ma cacciatore lo diventai tra Castelgiuliano e Sasso, dove ancora sono di casa. Lì è nato Re di Macchia, il mio primo e fortunato romanzo. Fino a quel momento ero un balillone che con altri buontemponi si aggirava per boschi, paduli e montagne senza molta scienza venatoria.
Mi fu maestro Pulcinelli Mario, prima tagliamacchia, poi scopino e beccamorto. Fu così che conobbi la Caccia con la “C” maiuscola. Crebbi ancora. Mi sposai in Austria e diventai cacciatore tirolese. Nel ’62 comprai la prima carabina, una Mauser 6,5x68, con ottica Khales a quattro ingrandimenti. I camosci erano vicini. Oggi si spara fino 500 metri, con ottiche fino a 20 ingrandimenti e i camosci sono tanti ma sempre più lontani. Questa è la mia storia, che continua ancora. Tra Castelgiuliano, il Tirolo, e tutto il mondo. Perché da 15 anni la caccia la vivo per raccontarla agli altri, dal satellite fin dentro le vostre case.
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