Ricorre quest'anno il
decimo anniversario dalla morte di un indiscusso poeta della musica italiana.
De Andrè ha vissuto sempre
a stretto contatto con la gente comune, dando spesso voce anche e soprattutto agli emarginati e agli oppressi, attraverso personaggi rappresentativi, metafore e profonde evocazioni che hanno
portato alla luce gli aspetti più controversi dei nostri tempi, rovesciando le convenzioni e smascherando talvolta i mali della società borghese.
In particolar modo
in Sardegna De Andrè si era avvicinato anche ai cacciatori cogliendone l'essenza. Aveva infatti osservato e capito
come la caccia per i sardi fungesse proprio da collante sociale ed in questo riconobbe
una profonda assonanza con gli indiani d'America. Ecco perchè nel 1981, proprio in Sardegna
scrive il disco L'indiano (inizialmente conosciuto con il solo nome dell'artista), che prende il nome dalla copertina di Frideric Remington raffigurante un pellerossa. Il disco è conosciuto anche con il titolo
Caccia al Cinghiale (nel disco vengono riprodotte delle registrazioni di battute di caccia). Il testo che segue è tratto dal libro
Non per un Dio ma nemmeno per gioco, scritto da
Luigi Viva, che riporta una diretta testimonianza del pensiero di De Andrè sul
popolo dei cacciatori sardi.
"Gli indiani di ieri e i sardi di oggi sono
due realtà lontane solo apparentemente, perchè sono due
popoli emarginati e autoctoni. Gli indiani sterminati dal generale Custer, chiusi nelle riserve. E i sardi cacciati sui monti dai cartaginesi, fatti schiavi dai romani, colonizzati poi. Le analogie fra le due civiltà sono tante.
La caccia è un denominatore comune. Attraverso la caccia, tribù diverse (gli indiani) e persone che abitano in paesi diversi (i sardi) riescono ad avere rapporti sociali. Per loro è anche uno sfogo,
un modo per conoscersi, per dimenticare di essere odiati senza motivo. Conosco alcuni sardi che si odiano per sentito dire, fino a quando non si incontrano nelle battute al cinghiale".