Dalla nostra inviata Cinzia Funcis
Bruxelles. A margine della conferenza organizzata nella sede del Parlamento Europeo dall'eurodeputato della Lega Giancarlo Scottà sul tema “La caccia nell’anno Europeo del patrimonio culturale - Le sfide di oggi e di domani”, abbiamo avuto modo di affrontare l'argomento e i diversi problemi della caccia italiana direttamente con lo stesso europarlamentare. Questo è quanto ci ha dichiarato.
- Onorevole Scottà, la deriva animalista, ormai insostenibile soprattutto in Italia, crea gravi problemi agli equilibri naturalistici e faunistici, con conseguenti ingenti danni all'agricoltura e in genere all'economia del paese. La caccia rappresenta ancora una considerevole fetta del PIL. Urge pertanto una forte presa di posizione del Parlamento e della Commissione Europea, per rendere compatibile l'esigenza di una forte tutela della biodiversità, con quella di difendere gli interessi del mondo agricolo e della caccia in Europa. Qual è l'impegno suo e del suo schieramento al proposito?
L’ambientalismo – o meglio, la volontà di tutelare l’ambiente naturale – è un sentimento profondamente nobile. Sono gli estremismi di un certo ambientalismo italiano, di stampo esclusivamente politico, a non esserlo. Talune posizioni strenuamente contrarie alla caccia rischiano, per l’appunto, di mettere a rischio il patrimonio faunistico e di biodiversità del nostro Paese. Anche il mondo ambientalista non è, infatti, esente da responsabilità, avendo commesso errori tali da aver pregiudicato gli equilibri della natura: aver favorito e pianificato alcune scellerate reintroduzioni in ambiente (a volte prive di un adeguato supporto scientifico) ha certamente causato disequilibri e consentito la presenza ingiustificata di specie alloctone, magari come predatori per altre specie invasive precedentemente introdotte. Ecco che l’intervento dell’uomo, oggi, non solo è divenuto auspicabile ma, in taluni casi, assolutamente necessario. La caccia di selezione agli ungulati vittime delle pandemie di rogna sarcoptica, in cui il ruolo del cacciatore è quello di riequilibrare il numero di capi in territori sovraffollati, ne è un esempio evidente.
Il cacciatore contemporaneo – si badi bene, non il bracconiere come ci definisce questo pensiero ambientalista – non è affatto quel bieco assassino come alcuni possono ritenere, tutt’altro: è forse uno dei più attenti, educati ed interessati conoscitori del territorio, delle sue problematiche, delle fragilità e degli equilibri naturali che si debbono tutelare. Interessati, ripeto, perché non volendo essere intellettualmente disonesti, bisogna sottolineare che il cacciatore ha il vivo e reale interesse a che gli habitat siano salvaguardati e tutelati sotto ogni punto di vista, in modo tale da esprimere e coltivare la propria passione nel massimo rispetto degli equilibri naturali. Ecco, la parola chiave dovrebbe essere proprio “equilibrio” e non estremismo. A cui dobbiamo aggiungere concetti altrettanto fondamentali quali “onesta intellettuale” “condivisione degli obiettivi”. È quanto mai urgente trovare infatti un dialogo tra mondo ambientalista e venatorio, nella volontà comune di sviluppare un reale approccio ecologista ai problemi che affliggono il nostro patrimonio naturale ed i paesaggi rurali d’Italia. Quella della caccia è un’economia che, proprio in una rinnovata ottica di sostenibilità, potrebbe, per esempio, non solo ben dialogare con il mondo agricolo – e trovare quindi nella nuova Politica Agricola Comune gli strumenti legislativi per evolversi – ma coadiuvare il comparto turistico e ricettivo portando nuova linfa, legando ad una fruizione consapevole dell’ambiente, la tradizione della caccia e della gastronomia tipica ad essa legata. Vi è molto da fare anche in relazione alla tutela degli allevamenti e delle aziende agricole da predatori e specie invasive, sempre all’insegna di un rinnovato dialogo tra le parti che possa trovare il modo di emendare, quando ne avremo l’opportunità, le proposte della Commissione Europea sulla PAC 21-27. L a mia battaglia, insieme a quella di tutte le associazioni venatorie nazionali, comincia ora, avendo come faro, appunto, il principio di equilibrio, di onestà intellettuale e di un approccio sostenibile della caccia, supportato sempre più da analisi scientifiche asseverate. - Per quello che riguarda la realtà italiana, onorevole Scottà, i KC rappresentano una anomalia macroscopica rispetto a dati e ricerche di Paesi confinanti e situati allo stesso parallelo (Grecia, Francia-Corsica, Spagna). Al momento sembra difficile che la Commissione EU possa influire sulle conclusioni emesse da ISPRA e Ministero Ambiente, visto che i singoli Paesi ne hanno competenza esclusiva. Ci sono iniziative per riportare la decisione definitiva in ambito europeo e in coordinamento fra i diversi Stati interessati? Come?
A livello nazionale, negli ultimi mesi ci sono state riunioni tra Ministero dell’Ambiente, ISPRA, Regioni e stakeholders (Associazioni dei cacciatori e ambientalisti), allo scopo di proporre alla Commissione un aggiornamento dei KC per l’Italia. Vi è consapevolezza delle accentuate discrepanze delle decadi di avvio della migrazione pre-nuziale indicate per l’Italia rispetto agli altri Paesi mediterranei: addirittura, per i Turdidi e la Beccaccia vi sono differenze in anticipo anche di tre decadi – in pratica di un mese – tra l’avvio della migrazione primaverile indicato per l’Italia rispetto a quanto indicato per Francia, Spagna, Portogallo, Grecia. Si tratta di differenze troppo evidenti, che hanno finalmente convinto il Ministero ad avviare una revisione dei dati nazionali, per verificare l’esistenza di nuove evidenze scientifiche ricavate anche con nuovi metodi d’indagine, che vadano oltre i soliti metodi delle ricatture di soggetti inanellati e dell’analisi dei carnieri. L’attenzione del gruppo di lavoro si è concentrata soprattutto su Tordo bottaccio, Tordo sassello, Cesena, Beccaccia e Alzavola. La revisione dei KC è stata sollecitata per anni dalle Associazioni venatorie italiane, ma ci si era sempre trovati dinnanzi a un muro di gomma. La Commissione attende a breve le risultanze del lavoro in corso, che verranno quindi valutate dagli esperti europei per eventuale modifica dei KC. Comunque vada, è fondamentale che l’Italia si allinei agli altri Paesi del proprio bacino bio-geografico di appartenenza, vista la condivisione delle popolazioni di uccelli selvatici migratori, e il loro utilizzo, con gli altri Stati membri mediterranei. Come credere che abbia senso che in Corsica, territorio francese, si caccino i tordi fino alla seconda decade di febbraio mentre in Sardegna, appena più sotto, territorio italiano, gli stessi tordi si possano cacciare al massimo fino al 31 gennaio?
Anche per il Lupo, onorevole, (e in parte anche per l’Orso nel Triveneto) si registra una forte anomalia italiana. Ibridazioni (cani inselvatichiti) e incauta ed eccessiva tutela nelle aree protette, hanno fatto proliferare a dismisura le popolazioni lupine in gran parte delle regioni italiane. Anche per questo problema, in altri Paesi europei affrontato molto più razionalmente, si registrano posizioni ideologiche di matrice animalista, che si agganciano a disposizioni conservative di fonte soprattutto europea (direttive).
Per la Direttiva Habitat il Lupo è specie d’interesse comunitario, quindi prioritaria, per la quale possono essere create zone speciali di conservazione. Per la Convenzione di Berna il Lupo è specie protetta. Il Lupo, quindi, gode di uno status di elevata protezione sia nell’UE, che a livello internazionale (in quest’ultimo caso, ciò vale ovviamente per i soli Paesi sottoscrittori della Convenzione). Per la legislazione nazionale italiana, il Lupo è specie particolarmente protetta, anche sotto il profilo sanzionatorio, ai sensi della legge 157/92. Non molti mesi fa abbiamo tutti assistito all’affossamento a furor di social della proposta di Piano di gestione nazionale del lupo, allestita dal Ministero dell’Ambiente, dopo anni di lavoro con un gruppo di tecnici e ricercatori tra i più esperti d’Europa sulla specie: piano affossato solo perché presagiva una gestione attiva della specie, anche tramite catture e, ove necessario, abbattimenti. Insomma, il Lupo non si tocca? Il punto di vista predominante sta diventando questo un po’ dappertutto. Pare che a nessuno interessino i danni spesso pesanti patiti dagli allevatori, soprattutto da quelli che ancora resistono nelle aree montane più difficili per la produzione di prodotti di elevata naturalità e qualità (formaggi, carne, ecc.) che poi, paradossalmente, sono ampiamente ricercati proprio da quegli abitanti delle città che, sui social, aderiscono alle campagne pro-lupo delle associazioni ambientaliste e animaliste. Non si tratta di dire sempre “sì” o sempre “no” al Lupo: come al solito, occorre un minimo di equilibrio, libertà da ideologie e totem vari, agendo sulla base di un sano pragmatismo, ovviamente nel rispetto delle norme.
Esistono iniziative a livello comunitario che possano consentire di affrontare il problema (danni gravi a greggi e armenti e alla fauna selvatica ungulata) per riportarlo a una dimensione gestionale più ordinata?
Vi sono alcuni Stati che cercano di dare concretezza ad un adeguato piano, fatto con molta attenzione per un intelligente posizionamento tra le varie opposte correnti di pensiero. In Francia è molto sentito il problema e anche nei Paesi dell’Est Europa, ma bisogna decidersi e non avere più paura di questo ambientalismo privo di alcuna rilevanza pratica e scientifica.
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