Gambero rosso, la rinomata rivista dedicata all’arte della cucina italiana, torna ad affrontare il tema della mancata valorizzazione di uno dei pilastri della nostra cultura gastronomica: la cacciagione.
Se pur lentamente qualcosa si muove, e qui il magazine porta in evidenza la felice esperienza dell’azienda faunistico venatoria S. Uberto di Monterenzio (BO), che ha dedicato un macello esclusivamente alla carne cacciata, facendo dunque partire una filiera commerciale con numeri sicuramente importanti e arrivando perfino ad esportare carne in Austria, dall’altra bisogna ammettere che in Italia la cacciagione non è inserita nei consumi degli italiani, o per lo meno lo è in minima parte.
“Questa è l’ipocrisia di un Paese dove in realta' grande parte della tradizione gastronomica e della storia della sua cultura materiale si basa appunto sulla caccia, unita magari alla raccolta di erbe selvatiche e di funghi” si legge nell’articolo di Stefano Polacchi. Ipocrisia che si traduce in pochissimi passi su questo fronte. Nonostante numerosi sforzi, convegni e dibattiti, ad oggi ancora la cacciagione che troviamo nei ristoranti e nei supermercati, spesso è importata dall’estero.
Tornando all’esempio di Sant’Uberto - a cui è dedicato il focus dell’articolo - si fa presente che l’azienda riceve solo carne tracciata e da cacciatori in regola con tutte le autorizzazioni. Il tutto vede una stretta collaborazione con artigiani e piccole industrie di lavorazione locale. Ne escono prodotti più che commerciabili. Come spalla cotta di cinghiale, arrosticini di cinghiale e hamburger di capriolo, preparazioni adatte al consumo quotidiano anche per i palati più delicati, caratterizzati da gusto e salubrità fuori dall’ordinario.
L’articolo affronta poi la questione più spinosa: il rapporto degli italiani con la caccia. La carne di selvaggina è buona e sana ma trova lo scoglio di un pregiudizio difficile da scalfire, di un’avversione contro il cacciatore che non riguarda solo gli animalisti duri e puri ma anche una concezione astratta ormai assimilata dall’opinione pubblica che nulla sa di ungulati fuori controllo e di problemi legati alla loro massiccia presenza o di cultura venatoria.
“Alla fine, uccidere una mucca o un vitello o un agnello allevati in stalla o al pascolo - scrive l’autore dell’articolo - in cosa è diverso dall’uccidere in una battuta di caccia un animale che vive libero e ha avuto una esistenza senza particolari costrizioni? Il dibattito può vertere sull’etica dell’allevamento e del macello, sul mangiare o meno altri esseri viventi, sulla scelta del vegetarianesimo o meno (il veganesimo è ancora più particolare e contiene in sé altri elementi sia di discussione che di polemica). Intanto, però, privilegiare il consumo di carne da animali liberi e che hanno vissuto una vita dignitosa, crediamo possa essere comunque un primo step verso il superamento di pratiche davvero pessime come quelle – ad avviso di chi scrive – dell’allevamento intensivo o super intensivo”.
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