E' venuto a mancare a 82 anni Giovanni Franceschi. Grande appassionato di caccia, pesca, buona tavola, era conosciuto per la sua immensa conoscenza del Padule di Fucecchio e delle tradizioni locali ad esso legate. Insegnante di scienze dell'alimentazione alla scuola alberghiera di Montecatini Terme, oltre ad essere un navigato gourmet, è stato allevatore di fagiani, pescatore e cacciatore, e soprattutto scrittore (Domani s'Ammazza il Maiale. Ovvero Del Norcino e d'Altre Meraviglie", "Il gioco del chiaro. Cento anni nel padule di Fucecchio". Edizioni dell'Erba -).
In questo ultimo lavoro, uscito pochi anni fa, ha descritto il passaggio dall'età arcaica all'età cosiddetta moderna di quei luoghi soffermandosi sui mali che oggi affliggono queste acque preziose, peraltro tutelate dalla Convenzione di Ramsaar. Errori dovuti anche all'ambientalismo salottiero che ha preso nel frattempo il sopravvento su tutto, portando - con sperpero di denaro pubblico - a cambiamenti anche dannosi per la biodiversità.
Abbiamo negli anni ospitato spesso suoi mirabili interventi. Ne riproponiamo uno di seguito:
GIOVANNI FRANCESCHI, MEMORIE DI UN PADULANO: FUCECCHIO, UCCELLI E RANOCCHI
Spesso mi viene chiesto se in padule vi siano ancora i ranocchi, alla mia risposta negativa mi sento inevitabilmente rispondere: eh, l’inquinamento!
Allora se la persona lo merita mi accingo con santa pazienza a spiegargli che i ranocchi, anche nella vita larvale, cioè da girini, seppure muniti di branchie, possono in carenza di ossigeno, ingerire piccole bolle d’aria quindi, nel tratto intestinale, assorbire l’ossigeno in esso contenuto.
A circa due settimane di vita le branchie regrediscono e i polmoni si sviluppano permettendo la normale respirazione aerea, pertanto questi anfibi possono vivere bene anche in acque povere di ossigeno.
D’altro canto, diminuendo l'ossigeno, aumentano per loro le possibilità alimentari in quanto, da un lato, l’arricchimento delle acque in sali minerali come azoto (deiezioni umane e concimi chimici) e fosforo (detersivi) provocavano abnorme sviluppo di fitoplanton, cibo di elezione dei girini, e di alghe, le quali, andando in putrefazione, favoriscono lo sviluppo dei chironomidi.
Al tempo stesso, quando il padule era in quelle condizioni di inquinamento, la diminuzione dei pesci, in particolare delle gambusie, favoriva l’aumento delle zanzare che, durante la vita larvale vivono nell’acqua ma respirano aria stando a pelo d’acqua.
Vi posso assicurare che in padule nessuno aveva mai visto i ranocchi come in quegli anni ’70.
Dobbiamo anche dire che fuorchè qualcuno che andava a frignolo, o li balzellava con la classica canna, nemici ne avevano ben pochi.
Allora le sgarze (nitticore) erano di passo primaverile e fra l’altro in mancanza di meglio da mettere in pentola, rischiavano anche una fucilata per cui dopo una breve sosta, proseguivano per i luoghi di nidificazione, infatti nessuno aveva mai visto un nido di sgarza in Padule.Solo qualche nido di tarabusino.
Quando le tiepide sere d’aprile si andava a mangiare un pezzo di pane sul ponte di Salanova in attesa del buio, il canale del Capannone di un colore grigio antracite, esalava fetidi odori che ti chiudevano lo stomaco, ma quando, acceso il lume a carburo ti inoltravi sui pezzi (striscie di terreno) il concerto dei ranocchi sovrastava ogni cosa, l’acqua aveva ancora l’odore dell’erba fresca e una coppia di marzoli ritardatari che si impennava verso il cielo stellato ti faceva pensare che ancora tutto fosse come prima.
Rare volte capitava, specie con la luna, di incontrare un branco di gabbiani comuni in predazione, ma nessuno pensava potessero arrecare seri danni.
Pesci buoni se ne pescavano sempre meno, i due canali in particolare erano divenute fogne a cielo aperto e soprattutto nelle zone dove le acque ristagnavano più a lungo anche le specie idrofite si andavano rarefacendo.
Nel ’75 il livello di degrado era tale che decisi a malincuore di cambiare genere di caccia per non assistere a quello sfacelo.
Ma il primo amore non si dimentica e pur non andandoci più cercavo di essere aggiornato.
Agli altri interessava solo il carniere che anzi era più ricco degli anni precedenti, vediamo cosa era successo.
Da sempre il nostro non era stato un luogo di sosta,ma di pastura; le anatre di giorno stavano tranquille a farsi cullare dalle onde del mare oppure nei boschi allagati delle riserve di S.Rossore o del Salviati e la notte venivano in pastura da noi.
Pertanto, quando si andava al cesto si sentivano levare centinaia di uccelli che andavano verso il mare, si sparava ai pochi ritardatari ed era raro rivederli fra giorno.
Ciò poteva capitare solo nei giorni di passo, quando faceva una mareggiata, o se il padule era gelato per cui gli uccelli non avevano potuto alimentarsi a sufficienza.
In Padule c’erano solo due piccole riserve (quella del Banchieri e quella del Settepassi) con un’ estensione complessiva di una sessantina di ettari, molto cacciate e mal gestite, erano tempi nei quali sarebbe stato inconcepibile pasturare.
C’erano anche due piccoli fondi chiusi confinanti, chiusi per modo di dire, perché in effetti tutti ci facevano una rapida incursione.
Negli anni ’70 invece, nel fondo chiuso denominato la Monaca fu assunto un bravo cacciatore che oltre a governare gli uccelli con quintali di granaglie, era presente giorno e notte e faceva contravvenzioni a tappeto anche a chi, sparando fuori del reticolato, faceva cadere i pallini dentro.
I risultati furono immediati e entrambi i fondi chiusi si riempirono di anatre.
La riserva del Settepassi scomparve alla fine del’50 e quella del Banchieri fu affittata da un pistoiese che aveva fatto fortuna a Torino e acquistò anche circa 250 ettari di terreni, ove costruì anche la sua residenza.Alcuni di questi terreni si trovavano ai bordi del padule e con imponenti e costose opere li riallagò e vi ottenne la concessione di riserva di caccia.
Seguendo i consigli di bravi cacciatori locali, nel giro di un paio d’anni la riserva si ripopolò di uccelli che venivano cacciati con giudizio, lasciando ampie zone indisturbate.
Mentre molti uccelli continuarono lo spostamento dal padule al mare, altri vi svernavano stabilmente, levandosi solo la sera per andare in pastura.
Evidentemente in quegli anni il padule offriva ancora, nonostante gli assalti ricevuti, possibilità alimentari per i selvatici.
Nel frattempo erano mutate le condizioni socio economiche delle popolazioni locali, le stalle si erano progressivamente svuotate, il pattume non serviva più e la plastica aveva sostituito sara e sarello per fiaschi e seggiole.
La cannella dominava incontrastata soffocando ogni altro tipo di vegetazione e rendendo impossibile la pastura degli uccelli.
I cacciatori falciavano i chiari a frullana, .ma sempre più spesso, aggiungendo danno a danno, appiccavano il fuoco.
Qualcuno ideò allora delle gabbie di ferro al posto delle ruote posteriori del trattore con il duplice scopo di evitare l’affondamento e schiacciare la cannella; non contenti davano anche fuoco.
Questi incendi, oltre che a distruggere molluschi e invertebrati, eliminarono tutti i gerbi di sarello (carex caespitosa) caratteristica peculiare del nostro padule.
Intanto, pur non andando più in padule, passando per le vie perimetrali avevo notato la presenza di garzette e nitticore durante il periodo estivo, poi seppi che avevano nidificato nelle alberete della Calletta, andando via via aumentando negli anni successivi, spostandosi in una cerreta della zona di Massarella.
Avevo anche notato che erano stati costruiti alcuni depuratori e che le acque di alcuni immissari stavano riprendendo un colore più naturale; rimanevano seri problemi, tuttora irrisolti, sul lato est del padule.
Nel 1987 andai in pensione e ricominciai a rifrequentare il Padule sia per la caccia che per la pesca.
La prima cosa che notai, salpando le mie reti, fu la predominanza di specie alloctone rispetto a quelle tipiche.
Nel giro di un paio di anni ne censii cinque nuove oltre alle tre presenti già prima della guerra.
Le carpe, prima rare, erano aumentate in modo esagerato sia nella varietà classica che in quella di Galizia.
Il luccio merita un discorso particolare.
Durante le piene invernali, dall’Arno rimontavano un certo numero di grossi lucci che, fra gennaio e febbraio deponevano miliardi di uova per poi finire in qualche rete o ritornare in Arno.
Devo dire che a memoria dei vecchi pescatori non si ricordavano catture di grossi lucci, diciamo sopra i tre chili, è pensabile infatti che il maggior grado di fertilità, di istinto alla riproduzione e migratorio, sia massimo a quelle taglie.
Gli avannotti di luccio crescevano rapidamente, specialmente se si verificavano piene tardive che apportavano ossigeno e nutrienti e alla fine di maggio si aprivano le pesche per favorire lo sgrondo delle acque e la fuga dei pesci verso le relle.
Il luccetto da fritto, detto localmente chiavacciolo, misurava all’inizio una dozzina di centimetri per crescere rapidamente fino ai venti ed oltre a settembre; esso rappresentava il maggior reddito estivo delle pesche.
Una buona pesca non ne vendeva meno di dieci quintali l’anno; se uno pesa in media trenta grammi, fate voi il conto di quanti ne venissero catturati. Ma ciò non creava problemi alla popolazione infatti ogni anno c’erano sempre gli stessi.
Diceva un vecchio pescatore, magari esagerando un pò, che bastavano dieci lucce per ripopolare tutto il padule.
Ritornando alle mie osservazioni, notai che le tinche seppure presenti erano in diminuzione e in particolare scarseggiavano le nuove nascite: ciò si spiega facilmente considerando la minore adattabilità alimentare della specie e la minora aggressività.
Ogni visita offriva una scoperta, che fosse un insetto, un mollusco, un uccello o una specie vegetale.
Le nutrie, avvistate già dagli anni ’70, aumentavano a vista d’occhio, ardeidi di tutte le specie in estate si contavano ormai a migliaia e i primi aironi cinerini avevano iniziato a svernare.
Capitava anche l’avvistamento di qualche tartaruga acquatica sulla cui identificazione non sono certo, ma dubito trattarsi della specie italica bensì di quelle ornamentali credo di origine americana.
Sempre più spesso trovavo grossi molluschi che poi seppi chiamarsi anodonta, provenienti dall’est Europa.
Penso che siano giunti, in forma larvale, attaccate alle squame dei pesci importati per la pesca sportiva, infatti furono rinvenute in un lago di pesca.
Nei primi anni ’90 le specie vegetali censite dal “Progetto pilota per la salvaguardia e la valorizzazione del Padule di Fucecchio” del ‘76 erano ancora tutte presenti.
(Memorie di un padulano)
Giovanni Franceschi