Tante tantissime iniziative sono partite in tutto lo stivale negli ultimi anni al fine di valorizzare intelligentemente quella grande risorsa che rappresenta la fauna selvatica in eccesso: carne selvatica sana e prelibata, fornita dai tanti abbattimenti in caccia e controllo faunistico. Durante il III Congresso nazionale sulla filiera delle carni di selvaggina è emersa una situazione frammentata, per nulla consistente e ancora tutta in salita, dati i molti punti critici dovuti un po’ alla resistenza dei cacciatori, un po’ alle effettive difficoltà logistiche e burocratiche. A partire dall’applicazione delle linee guida governative emanate ormai due anni dopo l’accordo tra Stato e Regioni, recepite solo in 12 regioni. Una vera filiera nazionale organizzata, che possa contare su un approvvigionamento consistente e continuo, dunque, al momento non c’è.
Dai vari interventi dei rappresentanti istituzionali delle Regioni presenti al Congresso, è emerso che la stragrande maggioranza della carne cacciata è ancora destinata all’autoconsumo (anche se alcune regioni hanno imposto limiti in tal senso). Le altre opzioni sono la cessione diretta di piccole quantità (1 cervo, 2 cinghiali, 4 caprioli e via discorrendo…) ad esercenti (macellerie o ristoranti) o l’immissione sul mercato della grande distribuzione. I dati presentati fanno capire meglio la situazione:
Regione Lombardia ha reso obbligatorio già dal 2012 l’esame trichinoscopico sulle carcasse di cinghiale, recependo poi le linee guida nel 2021 ha finanziato i centri di lavorazione della selvaggina con un milione di euro. E’ stato definito un piano operativo che consente al cacciatore di destinare il proprio capo alla commercializzazione dopo i dovuti controlli sanitari. Il punto critico è il numero dei capi prelevati, molto basso per alimentare una vera filiera. Per il cinghiale si parla di circa 6 mila capi cacciati in selezione, 5 mila in caccia collettiva e 1600 in controllo faunistico, a cui si aggiungono in media 1377 camosci, 1278 caprioli, 1400 cervi, 169 mufloni. In totale il 63% dei capi va all’autoconsumo, e solo il 15% venduto.
Il caso dell’Umbria, terra vocatissima al cinghiale, è ancora più sconvolgente. Linee guida recepite anche qui nel 2021, i 4 Centri di Lavorazione Selvaggina (di cui tre concentrati a nord della Regione) non riescono ancora ad intercettare le potenziali materie prime da immettere in filiera. Su 170 mila cinghiali stimati e circa 22 mila prelevati ogni anno, solo 88 sono le carcasse che risultano effettivamente messe in commercio durante la scorsa stagione venatoria. Secondo la relazione di Piero Macellari, dell’Asl 1 Umbria i numeri sono così bassi anche per la scarsa convenienza per un cacciatore di “vendere”, soprattutto per il basso prezzo attribuito alla carne di cinghiale.
La Regione Campania già nel 2016 aveva incoraggiato l’installazione e il corretto utilizzo delle Case di Caccia (C.C.) per garantire la sicurezza alimentare delle carni di selvaggina, ma ha recepito le linee guida solo quest’anno. Sul territorio sono stati organizzati un centinaio di incontri con i cacciatori per incrementare le figure di persone formate. Esperienza felice quella dell’Asl di Benevento, la cui filiera è partita grazie al funzionamento delle Case di caccia, sono 5 in tutta la provincia e permettono lo stoccaggio e le analisi sanitarie sulla carne. Anche qui però è emerso che il 68% della selvaggina cacciata è destinata all’autoconsumo dei cacciatori e delle loro famiglie e amici. Il rimanente 32% viene ceduto a laboratori di trasformazione annessi a macellerie, che utilizzano tali carni principalmente per ottenere salumi misti a carni di suino, e alla ristorazione pubblica compresi gli agriturismi.
Nelle Marche, dove l’obbiettivo di prelievo è circa 21 mila cinghiali l’anno, l’inghippo è rappresentato dagli alti costi a carico dei cacciatori per i rilievi sanitari sulle carcasse. Tant’è che dopo il recepimento delle linee guida nel 2021, nel 2022 la Regione ha assegnato un fondo di 30 mila euro ai servizi veterinari per limitare queste spese. Anche qui la filiera non sembra attrarre i cacciatori: su 15742 capi prelevati, sono 15081 i cinghiali che vanno all’autoconsumo, 8 in cessione diretta e solo 653 in filiera. Mancano i Centri di raccolta sul territorio, per i quali, sembra, al momento non ci sono i fondi.
Le criticità coinvolgono anche e soprattutto regioni come il Piemonte, dove i cacciatori sono già vessati per le restrizioni dovute alla PSA. Dalla relazione del tecnico della Regione è emerso che nel 2023 sono stati abbattuti circa 18 mila capi (14862 a caccia e 3196 in controllo) e che nell’anno solare 2022 sono stati eseguiti 30mila esami trichinoscopici. Criticità sono l’assenza di un elenco delle persone formate e il basso livello di abbattimenti, nonostante cifre impressionanti di densità, dato che si parla di 12 cinghiali per km quadrato.
In Emilia Romagna non sono ancora state recepite le linee guida governative ma i cacciatori sono ugualmente tenuti a consegnare i campioni per le analisi sulla trichinella. Dal 2006 si è cercato di promuovere l’avvio della filiera. Ma i numeri degli ungulati prelevati sono in calo: solo 18 mila cinghiali nell’ultima annata (erano 24 mila nell’annata precedente). I servizi regionali riferiscono di aver difficoltà nell’agganciare e stimolare i cacciatori e ammettono che i capi che finiscono in filiera sono ancora molto pochi.
La Toscana, come abbiamo visto, ha recepito le linee guida nazionali solo in questi giorni. Tra le novità introdotte dall’ultima delibera c’è il potenziamento dei corsi rivolti a cacciatori, operatori del comparto faunistico e corpi di polizia, che ne faranno richiesta, sulla gestione igienica delle carni, l’aggiornamento delle modalità di fornitura di piccoli quantitativi di selvaggina o di carne dal cacciatore al consumatore e la valorizzazione e potenziamento del Centro di raccolta della selvaggina, struttura importante nel garantire il monitoraggio sanitario delle carni e dunque la salute pubblica. Ad ogni modo già da anni sono attivi diversi centri di sosta, particolarmente nelle province di Siena, Pistoia, Arezzo e Pisa e convenzioni con i centri di lavorazione carni. Diversi Atc hanno attivato convenzioni con i centri di lavorazione carni di selvaggina che forniscono ristoranti e macellai.
Diamo tempo al tempo. La filiera deve ancora organizzarsi e per questo sono necessari finanziamenti (contributi da 6 a 10 milioni di euro per le Case di Caccia, Centri di raccolta e Centri di Lavorazione Selvaggina per incentivare la filiera sono appena stati annunciati dal Commissario Caputo) e formazione sul campo. Durante il Congresso sono stati veramente tanti gli spunti di riflessione soprattutto sulle criticità emerse. Da qui si tenterà di ripartire. E’ emerso intanto che l’Italia continua a conoscere una crescita della domanda di questo tipo di carne, sempre più apprezzata dal consumatore finale, soprattutto se viene informato delle proprietà organolettiche e delle caratteristiche di ecosostenibilità. Al momento, occorre dirlo, la quasi totalità della carne di selvaggina nei ristoranti e sugli scaffali dei supermercati è d’importazione, viene da altri Paesi Ue che da tempo hanno organizzato la filiera.
C’è molto da fare, si dice, anche dal punto di vista della formazione dei cacciatori, che sempre più e sempre meglio, dovrebbero fare passi avanti sul fronte del corretto trattamento delle carni per garantire prodotti impeccabili sul mercato. Da più parti si sottolinea che questa è la carne del futuro, anche e soprattutto dal lato del benessere animale. Se ucciso sul colpo un ungulato che ha vissuto tutta la sua vita nel suo habitat naturale, avendo a disposizione l’intero bosco, presenta infatti carni perfette, in totale assenza di livelli di stress che invece troviamo in allevamento.
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