Come abbiamo visto, in occasione della messa di San Uberto a Savona, la polemica contro la categoria dei cacciatori è stata innescata in primo luogo dall'Enpa di Savona, che in quei giorni è uscito con una serie di comunicati intolleranti verso la categoria.
Lo stesso ente all'inizio della stagione si è fatto promotore di una campagna contro la caccia che recitava "la caccia non è sport: è un barbaro divertimento consistente nel massacrare gli esseri viventi dotati di vita relazionale, che sanno gioire e soffrire come noi" e che a sostegno di ciò portava i numeri (al solito ingigantiti) relativi agli incidenti di caccia. Può l'Enpa (Ente Nazionle Protezione Animali) scagliarsi contro una categoria di cittadini, riconosciuta e tutelata dalla legge?
Sull'argomento abbiamo chiesto l'autorevole parere dell'avvocato Innocenzo Gorlani che vi proponiamo di seguito.
Da quando l’Enpa è scesa in guerra contro la caccia, non perde occasione per aggredire i cacciatori. Il pretesto, stavolta, è la messa che il vicario della Diocesi celebrerà sulla piazza di Nostra Signora della Misericordia di Savona, secondo una inveterata tradizione locale. Ma questo non è l’Enpa delle origini o, meglio, delle intenzioni dei suoi fondatori pubblici che lo vollero per proteggere gli animali dai maltrattamenti, dagli abusi, dagli sfruttamenti illeciti di cui gli animali sono vittime.
La caccia, per contro, è una attività lecita siccome prevista dalla legge e da questa regolata nel suo esercizio. Non ho alcuna remora a riconoscere che le trasgressioni dei cacciatori devono essere perseguite proprio perché il prelievo venatorio è una concessione dello Stato da esercitare nei limiti in cui è ammesso.
Gli è che, nel tempo, l’Enpa, ormai privatizzato, si è trasformato in un organismo di stampo ambientalista che insegue l’obiettivo di una forte limitazione, se non di abolizione, della caccia. E così fa la conta degli uccelli uccisi nella decorsa stagione venatoria in Liguria. Si sostituisce in tal modo alle associazioni ambientaliste che possono svolgere una azione tendente a limitare il (legittimo) prelievo venatorio, se ed in quanto dotate del riconoscimento previsto dall’art. 13 della legge istitutiva del Ministero dell’ambiente. E’così che il legislatore ha realizzato un sistema che prevede, da una parte, i cacciatori, dall’altra, gli ambientalisti: li troviamo negli organismi di gestione degli ambiti territoriali della caccia introdotti dalla legge 157/92, a bilanciare istanze diverse in un confronto difficile, ma utile; li troviamo nel comitato tecnico-venatorio nazionale. Per questo non mi stanco di ripetere che la cura della fauna selvatica deve rientrare tra gli obiettivi di entrambe le parti del confronto.
In questo contesto l’Enpa non ha alcun ruolo, pur se diventa ogni giorno più evidente il suo tentativo di incunearsi nel sistema di cui ho parlato per esercitare, dall’alto della sua antica ma ormai dimessa investitura pubblica, una pressione di carattere ideologico (ben evidente nel manifesto di Savona). Non posso non ricordare, a questo riguardo, il suo tentativo di opporsi alla divulgazione del Vademecum del cacciatore, una sorta di manualetto compilato dalla federazione italiana della caccia, sezione provinciale di Brescia, in cui si ricordavano ai cacciatori le regole elementari dell’esercizio venatorio e i poteri degli agenti di polizia giudiziaria e delle guardie volontarie delle associazioni ambientaliste e venatorie.
Ebbene: in quel Vademecum l’Enpa ravvisò una offesa alle sue prerogative o, meglio, alle prerogative che attribuiva ai propri agenti quali soggetti dotati di poteri di polizia giudiziaria: poteri che, invece, correttamente, la Federcaccia bresciana gli negava. Benché fosse chiaro che non poteva in alcun modo vantarli, l’Enpa si rivolse al Tribunale di Roma perché inibisse alla Federcaccia la divulgazione di quel blasfemo libretto e di distruggerne le copie ancora disponibili. Il Tribunale rigettò il ricorso e condannò l’Enpa a rifondere le spese di giudizio alla Federcaccia.
L’episodio, risalente al 1996, rivelava, da una parte, una intolleranza di fondo verso un legittimo modo di manifestare una opinione (peraltro convalidata da chiare istruzioni ministeriali e da pronunce della magistratura), dall’altra, confermava la deriva intrapresa dell’Ente. Con ciò dimostrando che, se deraglia dai propri binari, diventa inutile rispetto allo scopo di protezione degli animali, mentre nell’affollato parterre delle associazioni ambientaliste non si sente – ne siamo certi – il bisogno della sua presenza.
Avv. Innocenzo Gorlani