I cacciatori sono una specie in estinzione, lo dicono gli anticaccia con una certa soddisfazione cercando di imporre la propria tesi di civiltà e modernità, da cui l'attività venatoria è bandita. Si tratta però delle stesse persone, associazioni e personaggi televisivi che amano puntare il dito contro questa esigua categoria quando si parla di diminuzione della selvaggina. Questa contraddizione è l'oggetto di un articolo di Paolo Granzotto pubblicato oggi dal sito web de Il Giornale.
Granzotto riporta le considerazioni di un lettore, tale Sig. Raucci: “Non sono cacciatore – scrive - ma non mi reputo un ipocrita: pertanto, mangiando con gusto piatti a base di selvaggina, non mi strappo le vesti se questa, prima di finire nel mio ragù, viene abbattuta a fucilate, anziché uccisa a norma di direttiva Ue”. Da una trentina d'anni la selvaggina è diminuita, almeno in alcune parti d'Italia ma sono diminuiti drasticamente anche i cacciatori: “mi viene pertanto da pensare – sostiene Raucci - che non vi sia un nesso diretto tra la quantità degli animali selvatici e quella dei loro cacciatori: quindi senza caccia le cose resterebbero grosso modo le stesse”.
Non sarà che chi vuole abolire la caccia in realtà non voglia preservare gli animali ma solo vietare una attività che ritiene non eticamente corretta? Si domanda il lettore. Di questo passo dove si arriverebbe? Si finirebbe col “vietare anche la fettina impanata o le costolette di agnello”.
“Anch’io non dico di no alla cacciagione” risponde il giornalista. “Da piccolo mi leccai le dita con la polenta e osèi, che poi gli osèi, gli uccellini, erano tutta pelle e ossa, però buoni da matti. Raggiunta l’età della ragione andai ghiottissimo del beccafico (schidionato, alternato a foglie di alloro e scampoli di lombo di maiale), volatile in seguito diventato introvabile e comunque escluso a norma di legge dai generi alimentari”. “Di caccia e cacciatori - spiega - avevo l’immagine che ne diede Renato Fucini nelle sue Veglie del Neri, la stessa che ne dava, per dire, anche Indro Montanelli che si diceva un buon fucile (e certo aveva, finché resse, buona gamba, senza la quale non s’è cacciatori)”.
Cosa ben diversa oggi, spiega ancora il giornalista, che “al massimo ti rifilano quaglie da allevamento e quel che è peggio di provenienza cinese”, per questo Granzotto dice di astenersi alla cacciagione. Ma c'è un'altra ragione secondo il Giornalista, che racconta il comportamento sbagliato di alcuni cacciatori da lui osservati in una riserva (uno dei quali racconta, prese calci un fagiano d'allevamento che non ne voleva sapere di alzarsi in volo, sparandogli poi subito dopo). Se alla caccia le togli la signorilità, l’eleganza, se la riduci a cafona mattanza l’arte venatoria che ragion d’essere può avere?
Una riflessione che ognuno di noi dovrebbe fare sua, ma per correttezza Granzotto avrebbe dovuto menzionare anche che la stragrande maggioranza dei cacciatori esercita l'attività venatoria secondo precisi principi etici trasmessi di generazione in generazione, che perpetuano nel tempo l'idea del rispetto e della contemplazione della natura. Quante altre attività possono fregiarsi di tale merito?