Ascolto i racconti di Maurizio Lucci e Fabrizio Stefano, tra ricordi, risate, particolari. Infanzia e adolescenza dedicate completamente, dapprima, a giochi in cui si imitavano i cacciatori, poi ad una e vera e propria ricerca degli animali da catturare. A quei tempi, era ovunque così: la curiosità spingeva a trovar metodi per prendere l’animale, osservarlo da vicino, riconoscerlo, saperne stagionalità, muta, comportamenti. Si arrivava alla licenza di caccia, senza segreti sulla natura. Ascolto curiosa, portandomi con la mente a me bambina, cresciuta con padre e nonni, zio e amici di questi, cacciatori. La curiosità era tanta, ma ero femmina e le femmine dovevano fare altro. Eppure, mi dicevo, Diana è una Dea, Donna, quindi, anche io curiosa, ascoltavo e apprendevo, imparavo la natura da nonni e bisnonni e da ragazza anche per me, i boschi e le rive del fiume lungo il quale sono cresciuta, non avevano segreti. Inoltre, mio padre, una volta a casa coi carnieri, faceva mettere in posa me, mio fratello e sorella con la selvaggina in mano, o sistemata in terra o sul tavolo! Interi album di infanzia e pre adolescenza con i vari animali abbattutti dal cacciatore di casa!
Siamo tutti legati a Madre Natura e la caccia è dentro di Noi dal Tempo dei Tempi.
“Noi siamo cresciuti al Tuscolo".
Prati, alberi, boschi, lastricati romani e rovine. Sterrati, pascoli, poche case nelle valli, canti di uccelli nel risveglio della natura a metà febbraio, anfiteatri, grotte che portano ad altre grotte, muri e pavimentazioni romane. Più in alto castagneti, infondo i laghi. Di Nemi, da Dea Diana Nemorensis: la Dea della caccia la abbiamo sempre avuta nell’aria. Ancora più infondo, a colorare l’orizzonte di blu, il Mar Tirreno. Poi, Castelgandolfo, le Ville dei Colli romani, vigneti, cantine e le genti di cantina. Noi così, un po' selvatici, ma si stava bene. Erano i tempi della rinascita economica. Siamo degli anni sessanta. Si poteva tutto. Erano tempi di rinascita vera.
Tra tutti quei colli in saliscendi e boschi, molti a quei tempi, compresi i nostri padri, andavano a caccia; vecchi e giovani e noi bambini sempre in mezzo alle campagne ed alle frasche ci divertivamo ad imitarli.
Costruivamo “fucili” di legno e facevamo finta di sparare ai tanti uccelli che abitavano quelle zone. Cardellini, fringuelli, passeri, cince, verdoni, eccetera... In realtà non sapevamo ancora di quali specie si trattasse, ma poi, avendo padri cacciatori, imparavamo in fretta la differenza tra il tordo sassello ed il bottaccio, tra il merlo e lo storno, le differenze tra maschi e femmine di alcune specie e la curiosità aumentava sempre di più, così le arrampicate sugli alberi per catturare qualche uccello, le trappoline fatte col vischio bianco, o cercare di vedere che cosa ci fosse nei vari nidi, diventava pane quotidiano.
Sin da bambini abbiamo allevato molte specie di uccelli a mano, o salvato rondoni dopo i temporali primaverili, o falchetti e civette varie trovati per caso, o per amore.
Il “cacciatore bambino” impara ad amare e a rispettare i tempi delle varie specie di animali che poi caccerà da adulto consapevole.
Un’altra cosa che amavamo molto costruire erano i capanni da caccia. Quelli erano i nostri giochi quotidiani. Non vedevamo l’ora di tornare da casa da scuola e scappare nel nostro mondo: una natura accogliente e incontaminata. Boschi che non solo ospitavano mammiferi ed uccelli stanziali, ma che accoglievano i migratori in arrivo dal mare nel periodo tardo primaverile ed estivo, o il ripasso autunnale così romantico nei colori mutevoli del fogliame. Tutto questo ci spingeva a volerli cacciare anche e veramente…
Con l’adolescenza dunque, la voglia di costruirci fionde arrivava da sé, così diventammo bravissimi a costruirne con i rami di ulivo, ma questa è un’ altra storia e la racconteremo in seguito”.
Dai racconti di Maurizio e Fabrizio, di Michela Pacassoni.