Giacomo Puccini predilesse la caccia ad ogni svago e fu cacciatore a tutta prova. Giovane e vigoroso affrontò fatiche e strapazzi, resistè con uguale pertinacia alla calura del solleoni ed ai rigori dell'inverno. Nella maturità, quando gli fece difetto la capacità di camminare, si dette esclusivamente al lago, la mattina all'aspetto nel cesto o nella botte, durante il giorno gattonando in barchino o inseguendo su motoscafi, veloci come saette, gli uccelli acquatici, che rimanevano disorientati dalla furia con la quale piombava loro addosso.
Come ogni cacciatore di razza, la passione della preda, il fascino del vagabondaggio venatorio anche in lui si unirono alla vaghezza del paesaggio, all'amore della serena vita campagnola. Per questo anzi gli piacque più la caccia, perchè essa dalle complicate e frivole convenzioni cittadine lo riconduceva alla beatitudine delle comode giacchette di frustagno, ai pasti frugali e schietti, alle abitudini patriarcali, all'aria aperta e sana dei campi e dei boschi del contado lucchese.
Quando la sua stella brillò in pieno, non dimenticò i viottoli della freschissima pianura, le ripe alberate del Serchio, le pinete dell'estuario viareggino. Ogni ritorno a Torre del Lago fu per lui una festa, un rivivere la spensierata giocondità giovanile e le lontananze — ahi! troppo frequenti e troppo lunghe — furono sempre irrequiete, assillate dalla nostalgia e dall'impazienza del ritorno alla dimora lacustre. Le città sfolgoranti, le turbinose metropoli di tutto il mondo offrirono al Maestro i trionfi e la gloria, tutti i premi e tutte le soddisfazioni, quante la fortuna può donare ai conquistatori: ma le solitudini campestri, la pace dei casolari e delle capanne, la vista degli orizzonti vasti lo chiamavano irresistibilmente là, dove la sua Musa gli aveva sorriso la prima volta, e, fedelissima amica, lo attese sempre per accoglierlo fra le braccia divine e donargli la gioia dell'ispirazione.
Nelle lente albe padulane, lacrimanti di guazza, nei melanconici tramonti, sanguigno-dorati, mentre i grilli cominciano a cantare in ogni prato, nell'incantesimo dei cieli stellati, il suo genio colse i motivi pù originali, della musica soave, che gli sgorgò dal cuore, secondo la regola dantesca. A Bruxelles, nell'angoscia del dubbio sulla natura del suo male, le sue ultime parole sono state un sospiro alla terra di Lucchesia, sospiro pieno di rimpianto e accorato come quello di un altro toscano, che conobbe lo stesso strazio di sentirsi mancare la vita in esilio:
Perchè non spero di tornar giammai....
Nel tedio della inesorabile pioggia nordica riappariva a Puccini la terra natia, aprica e soleggiata quale egli l'aveva vista, fanciullo povero e musico precoce, uscendo dalle mura della chiusa città per andare alle messe cantate nelle chiese del suburbio. Il Carducci disse che a piè dei monti e all'ombra delle querce è la fonte della poesia, dall'altura di S. Miniato vide in pieno sole le ninfe eterne, quelle che Dante sorprese nel plenilunio estatiche al sorriso di Trivia. Puccini ascoltò le arcane melodie del cielo e della terra d'ltalia e le ripetè con la sua musica al giudizio infallibile delle folle.
La mestizia, che pur nell'ebbrezza del primo bacio dato alla piccola amante, spira nel finale del primo atto di Butterfly, quando viene la notte con le prime stelle, è la mestizia di un tramonto toscano, è la melanconia di una serata a Torre del Lago, è la dolce tristezza dell'imbrunire nelle nostre campagne, se sui monti, sui colli e sul piano, pianga l'usignolo fra i fiori nivei delle acacie, e s'oda il lamento d'una folaga perduta nel folto di un canneto.
L'alba romana in Tosca, è alba serena e fidente, è alba benedetta dai contadini, dagli uomini sani e riposati, che nella notte ebbero il premio del sonno in pace, e par che dia tregua alla tragedia, che sta per chiudersi dal mostruoso inganno papale. Manon nel vortice del lusso mondano vede infranto irreparabilmente il suo amore fiorito in un fortuito incontro provinciale; la disperata Butterfly, ai giorni che i pettirossi fanno il nido tra i glicini della collina, spia la marina se mai si compia la promessa dell'nfedele, e Mimì, che si strugge chiusa fra le mura di Parigi, come una monaca nella clausura odorando l'unica rosa germogliata a stento sul davanzale della finestra, che guarda sui tetti, anela di vivere al sole in piena primavera nel profumo dei fiori, afflitta perchè quelli che fa con le sue mani non hanno odore...
Questo desiderio di quiete campagnola, questa aspirazione arcadica è forse la nota più ricorrente della opera pucciniana, quella, almeno, che più si afferma come personale e originale. La sua musica flebile, sentimentale e patetica nel senso sano della parola, calda ed appassionata, ora soave e piena, ora più viva e fremente, quasi sempre melodica, come gli stornelli e le cantate selvatiche, come i gorgheggi dei nostri uccelli, come i murmuri dei nostri fiumi e i fremiti dei nostri boschi, spesso intrecciata di movimenti pastorali, cosparsa di trilli, intessuta di ritmi e di toni, che richiamano alla mente di chi ascolta i colori e gli odori campestri, le risonanze e gli echi, che fluttuano inesauribili dai monti, dai colli e dai piani.
Egli ebbe squisito il senso del paesaggio, ne subì sempre l'ineffabile suggestione, ne intuì i più segreti signficati, conobbe tutta la bellezza, che è nella natura, contemplandola, adorandola nelle lunghe solitudini degli aspetti ai passi canori di autunno e di primavera.
A caccia, col fucile in spalla, la tesa del cappello calata un po' sugli occhi, era ed appariva felice, soddisfatto, più disposto a far due chiacchiere, pronto anche alla facezia ed alla celia.
A' bei giorni, che con Renato Fucini, toscano e campagnolo puro sangue anche lui, andavo alla Piaggetta, deliziosa villa costruita da Carlo Ginori fra i canneti di Massarosa, s'incontrava spesso Puccini in barchino o in autoscafo, o sdraiato al sole sul sodo di un argine. Fosse stata buona o sfortunata la caccia, ci fossero o no anatre e folaghe morte sul pagliolo della barca, l'allegria e il buon umore non mancavano mai in quelle soste gioconde. Renato n'avea sempre qualcuna delle sue, anche se l'argomento era sempre lo stesso: passo finito o da venire, tiri miracolosi o padelle, lodi sperticate di cuccioli sguaiati o di vecchioni, che, rattrappiti dagli anni e dalle guazze, tremavano aggomitolati a cuccia, imprecazioni contro gli speculatori, che, con la scusa delle bonifiche, sciupavano il lago. Di arte era difficile che si facesse parola fra i due artisti.
Eppure quanta arte e di quella buona davvero in quelle ore passate in ozio, dinanzi al magnifico quadro, che dai canneti e dai prati stesi sui bordi del lago, saliva alle colline di Catria, tutte vive di case e di chiese, ricamate di vigne, di chiudende e di selve, fino alle cime delle montagne marmifere bianche e violette.
Il poeta ed il musico guardavano estatici, ogni tanto accennandosi una veduta che più offriva di bellezza.
Come le api quando succhiano i fiori, si trattengono dove più dolce il succo per caricarsene e portarlo al segreto lavoro del miele, così essi s'empivano il cuore di impressioni e di emozioni, che poi avrebbero lavorate al cesello paziente della loro arte.
Mi ricordo che una mattina di primavera, incontrammo Puccini, che in barchino se ne tornava dal cesto.
C'era stato gran passo di ogni sorta di uccelli ed egli aveva tirato molto e bene. L'alba sul lago era stata incantevole: i codoni, i fischioni, le marzaiole, le folaghe e le gambette gìà in amore, avevano fatto un chiasso indiavolato.
— Ma che musica eh! stamani.... — esclamò Puccini, come vide Renato, e tutto ancora preso dallo spettacolo goduto, cominciò a descrivere la levata del sole dai primi albori, dai primi cenni di risveglio con le deboli voci degli uccelli più solleciti, al pieno entrare dalla parte del mare dei branchi innamorati e canori. Appena entrati volano altissirni, appariscono e spariscono in cielo, si gettano poi a striscio sull'acqua, finchè cedono all'inganno delle tese e si tuffano. Si rilevano e rivolano alle nuvole e volteggiano ancora da ogni parte del lago, a file, a semicerchi, a stormi, per cercare e, a giorno fatto, riprendere cantando le vie aeree, le invisibili tracce che conducono alle regioni iperboree, agli indisturbati amori nelle pallide solitudini polari, che in estate non hanno notte.
Il Maestro nel descrivere parlava semplicemente, esprimendosi con la nostra bella lingua, sonora come le campane dei nostri villaggi, colorita comee i campi in pieno Maggio, agile come la corsa di un capriolo maremmano.
Intercalava, nel dire, pause pensose, gli veniva fatto di attardarsi in alcuni particolari della narrazione. Pareva allora che riascoltasse in segreto i particolari di un motivo, di uno spunto musicale colto nel volo degli uccelli in amore mentre il sole sorgeva, stando egli allo aspetto fra i canneti di Torre del Lago.
Forse la sera di quel giorno, tornato al lavoro nella quiete del suo studio aperto alla gran vista della campagna, avrà tentato sul pianoforte le prime note e i primi accordi di una delle sue melodie, di quelle dolci rnelodie, che quietano ogni altra voglia e piacciono a quanti intendono l'arte col cuore e non col cervello.
Tratto da Diana
Marzo, 1925