Giacomo Puccini aveva una grande passione per la caccia - è vero - ma non per questo poteva essere considerato un grande cacciatore. Già lo apprendemmo dal suo fedele “pretino” Panichelli che commentava in maniera negativa quel suo insaziabile desiderio di sparare sempre e in qualunque circostanza per il solo gusto di farlo.
Non si è infatti grandi cacciatori perché si uccidono centinaia di folaghe scaricando nel mucchio dei poveri uccelli la propria doppietta. Cosi come non si rende onore aIla regalità venatoria di Diana sacriflcandole la vita di un innocente scricciolo o di un timido pettirosso.
“La caccia, al pari di ogni attività umana, va inquadrata nella sua etica, che distingue i vizi dalle virtù”, ha scritto José Ortega Y Gasset nella prefazione al volume Veinte años de caza mayor del conte Eduardo de Ybes.
E con tutta probabilità il Puccini cacciatore aveva più vizi che virtù, piû difetti che pregi.
Del resto, doveva essere una regola – questa - comune a molti signori della caccia, che solevano spesso riempire il carniere a buon mercato, senza eccessiva fatica, a tutto pensando fuorché a praticare l'esercizio venatorio con la tecnica propria dei veri maestri di cinegetica.
“La tecnica - dice ancora l'Ortega - comporta che il raggiungimento di un certo scopo sia difficile e incerto”. Mentre Puccini e i suoi compagni di carneficine nei laghi di Massaciuccoli e di Burano non avevano che da premere il grilletto per far cadere dal cielo una pioggia di vittime.
Ma non era soltanto questo che negava a Puccini la qualità di grande cacciatore. C'era dell'altro. Che cosa?
Ce lo racconta Stefano Rossini, rievocando il breve rapporto che il suo omonimo nonno orbetellano - lui sì nembrotto della più bell'acqua - ebbe con il celebre compositore
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Quanto ci riferisce (“L'ho buttato giù a braccio, e si vede”, avverte l'amico giornalista nella lettera di accompagnamento) è scritto con tale freschezza e spontaneità da indurci a trascriverlo integralmente, senza cambiare una virgola. Non prima, però, di aver dato spazio anche a questa importante dichiarazione di Rossini: “Il fatto me lo riferì mio padre, che non era persona che diceva bugie. Forse a qualcuno non piacerà la storia, rna forse servirà ad umanizzare di più il Maestro, la cui musica io adoro”.
É indubbio, dalla seguente rievocazione aneddotica, anziché sminuito, l'uomo Puccini esce più vero, più autentico, quello che in effetti era anche nelle vesti del cacciatore, non quello che una letteratura spesso esageratamente encomiastica in ossequio alla fama del personaggio ci ha fatto credere che fosse.
Ed ecco il racconto di Stefano Rossini:
“Quando Giacomo Puccini scelse la spiaggia della Tagliata per trascorrervi momenti di svago e di caccia, chiese che gli fosse messo a disposizione il miglior cacciatore della zona. A quei tempi erano tanti i concorrenti all'ambìto incarico di accompagnare il Maestro nelle sue battute in padule, chè la caccia in questa parte della Maremma era professione abituale di moltissime persone.
Fra le probabili “spalle” di Giacomo Puccini fu scelto mio nonno Stefano Rossini, guardia campestre, che aveva della caccia un'opinione sua personale; per lui cacciare un animale, qualunque esso fosse, costituiva una battaglia quasi ad armi pari, in cui l'uomo con il fucile e l'animale con la sua astuzia si trovassero ad eguale livello di potenzialità, l'uno per cacciare e l'altro per non essere cacciato.
Quindi, mio nonno andò. Due nomi illustri, uno per proprio merito, Puccini, e l'altro per un'omonimia della quale non aveva di che vantarsene in proprio, Rossini.
Due caratteri anche fisici in parte opposti; l'uno, il Maestro, brillante, estroverso, di orecchio finissimo; l'altro, mio nonno, burbero, seontroso, sordo. Ma tuttoquesto non avrebbe influito nel loro rapporto e nella loro collaborazione in mezzo alla palude maremmana, nelle albe violente del litorale capalbiese e orbetellano.
Furono, però, proprio le albe a spezzare innanzi tempo la loro collaborazione ed il loro affiatamento.
Ma andiamo per ordine. Dunque, mio nonno andò; si presentò al Maestro, fissarono i loro accordi (non musicali) si diedero appuntamento, e tutto, sembrava scorrere liscio come l'olio.
Ma dopo pochissimi giorni, tre o quattro, i1 vecchio Stefano Rossini fu rivisto in Orbetello. Aveva interrotto le battute di caccia con Puccini Perché? “Perché Puccini non è un cacciatore!”.
Scandalizzati per la “lesa maestà” gli amici chiesero spiegazione di così sacrilega frase.
“Perché un vero cacciatore spiegò mio nonno, faticando a parlare (cosa per lui poco consueta), non si alza alle sette, ma alle due di notte”. E tacque per non tornare più sull'argomento. Così finì, in maniera piuttosto insolita, la coppia di cacciatori che era nata per grosse cacciate con ricchi bottini. Solo perché l'uno intendeva la caccia in un modo e l'altro in maniera diversa. Chi aveva ragione? Non sta a noi esprimere un giudizio. Ci piace soltanto riportare un aneddoto così come ce lo hanno raccontato, magari sfatando una leggenda che durava da tempo e che aveva bisogno di una piccola correzione”.
Testo tratto da:
Puccini in Maremma
Di Alfio Cavoli Roma, Scipioni 1990
Da pag. 109 a pag. 113