Senza volerlo avevo colto nel segno: Puccini era appassionato per la caccia, quanto e forse più che per la musica.
Se il Lago di Maciuccoli – come con originale sincope lo chiamava il maestro – potrebb'essere
realtà del più ardito sogno di Diana, è stato per anni interi il tantalico supplizio di Puccini.
Folaghe, morette, arzavole, moriglioni, rossinotti, pappardelle, strolaghe, fischioni, germani, gallinelle, beccaccini, aironi. Che più? Trabocchi, oche, codoni e ancora, ancora - insomma, un vivaio tale di pennuti acquatici da far girare il capo più equilibrato, da svegliare gl'istinti cinegetici anche nei più refrattari.
Puccini aveva questo istinto in grado altissimo fin da ragazzo, quando a Celle si divertiva col vischio ai rosignoli e ai pettirossi. Ora, dinanzi a quella grazia di Dio, gli toccava rimaner cacciatore intenzionale: una castità forzata, resa torturante da mille peccati di desiderio.
Il lago era proprietà Ginori-Lisci. Il marchese Carlo Ginori abitava una sua villa costruita in parte sopra antiche mura, affondate nell'acqua, che servono da piloni alle arcate sulle quali poggia la costruzione, nobilmente bella nella semplicità dello stile toscano, tutta a mattoni scoperti, squadrati di bianco, con una veranda lungo la facciata.
La vista spazia sul lago, ma la villa rimane, tuttavia, serninascosta da una folta vegetazione tropicale: palme ad alto fusto, salici, eucalipti e una quantità di altre piante esotiche e Lacustri. Si accede alla «Piaggetta Ginori» dalla terra, per una traversa della provinciale Lucca - Pietrasanta; dal lago, per due canali aperti fra le canne ed il falasco. Il giardino che circonda la villa, tutto fiorito nella stagione propizia, ha piante e vasi ben conservati nelle serre. Un tepore delizioso, una quiete paradisiaca avvolgono quel luogo d'incanto.
Consigliato da noi amici e vincendo la sua naturale selvatichezza, Puccini chiedeva, qualche volta, al marchese Ginori, il permesso di libera caccia per una giornata. Il nobile signore accoglieva benignamente la preghiera del musicista, e allora era festa grande per il maestro, capace di cacciare anche dodici ore di fila, perchè nulla andasse sprecato della concessione ottenuta. Di solito, però, si recava, secondo il regolamento comune, alle «stampe», nel capanno o in botte, oppure con la zampogna, che è un modo speciale di cacciare. Ma era caccia limitata cotesta, che non appagava del tutto l'assetato seguace di Nembrot.
Un giorno, anzi una notte, decise d'arrangiarsi, avventurandosi come un bracconiere che sfida guardie e gendarmi. Ma non era possibile agire da solo, occorreva un aiutante. Il complice fu trovato: Lappore. Chi era Lappore? Un contadino, un boscaiolo. Di casato aveva nome Manfredi, di battesimo Giovanni, ma lo chiamavano Lappore per quei suoi occhi tanto chiari, che di notte diventavano fosforescenti. «Lappore» è un nomignolo torrelaghese che significava ciglia bianche, e lui, Lappore, aveva quel biancore nelle pupille e tanto bastava per avergli appioppato il soprannome. Certo aveva la virtù dei gatti, tanto ci vedeva al buio, e se aveste nascosto due soldi in un cespuglio, Lappore li trovava a mezzanotte senza luna, come voi infilereste l'uscio di casa a mezzogiorno. Cacciatore astuto, animoso, rotto alle fatiche, conosceva il lago in tutti i meandri, come pochi. Amava tanto il maestro che lo avrebbe seguito in capo al mondo. Povero Giovanni, quando morì, Puccini se ne afflisse tanto!...
Sapendo quale indomabile passione aveva il sor Giacomo per la caccia, Lappore non mancava di appagarne i desideri. Era lui, il più delle volte, a esortare il suo signore. In piena notte, d'inverno, il maestro sentiva chiamarsi dalla strada, e se dormiva profondamente e tardava a rispondergli, Lap- pore lanciava dei sassi contro le persiane: uno, due, tre.... fino a che destato di soprassalto:
— Ohè! chi è?
— Venga via, sor Giaomo, è notte bona.... cè roba!...
Vengo, — rispondeva Puccini, accendendo la candela. Poi, dopo qualche secondo, — il tempo di vincere il disgusto di lasciare il buon caldo del letto — si vestiva: camicia da notte, sopra la ma- glia, sopra ancora un vestitaccio di frustagno, calze di lana grossa, un paio di scarpe (rnagari una d'una specie e una di un'altra, come venivano), un fazzoletto al collo, il cappotto, il cappello, e giù per la scala: cric, crac....
— Piano, perbio, — diceva a sè stesso, se no si desta l'Elvira
Finalmente in istrada; socchiudeva garbatamente la porta:
— Ohe, com'è?!...
— Andiamo, presto, — insisteva Lappore, — le guardie ora non ci sono, sono lontane, la barca è pronta. Prenda schioppo e cartucce.
La manovra cominciava. Sembravano due fantasmi: s'imbarcavano piano piano. Puccini a prua, Lappore a poppa. Questi si metteva a remare con foga. Ogni tanto delle folate di vento li facevano rabbrividire. Quando stavano per raggiungere il branco delle folaghe, Lappore vogava col remo sott'acqua, per non far rumore e non svegliare la «tignose», come le chiamava Puccini.
— Dove sono? — chiedeva con un fil di voce.
— Verso Massaciuccoli, ma più dalla parte del pisano.
E via ancora.... Finalmente sul piano dell'acque si scorgeva una massa scura.
— Eccole! — diceva Lappore, nell'orecchio del compagno. — Le vede?
— Sì, ora le vedo anchio.
E ancora avanti, remo sott'acqua, in perfetto silenzio, col cuore in sussulto.
«Le folaghe» raccontava Giacomo «vanno or qui or là, nella notte, a dormire a riparo dal vento. Si radunano in branco di due o tremila, accoccolandosi una accanto all'altra, quasi per avere più caldo
e tanto vicine tra loro che formano massa. Attorno al branco disseminano delle compagne, quasi sentinelle avanzate contro il nemico. Accadeva spesso che le povere bestiuole, ignare della prossiina sorte, si lasciassero sorprendere. Le loro ombre proiettate sulle acque, dal tenue chiarore delle stelle o da quello biancastro delle nubi, sembravano degli strani cilindri, simili a quelli che usiamo per copricapo. E poichè Lappore era cosi silenzioso nel vogare, e ambedue non fiatavamo, accadeva di entrare con la barca nelle prime file del branco e alcuni uccelli venivano a portata di mano. Allora Lappore afferrava l'animale più vicino, cacciandolo sott'acqua, perchè nello starnazzare non facesse rumore. Quando era morto affogato — barbari! — lo deponeva piano piano nel fondo della barca.
Questo scherzo si ripeteva fintanto che giungeva il momento dì decidersi. Quattro colpi, a coppie rapide e sincrone, sistemavano la situazione: una vera carneficina e tutt'attorno come un rimbombo da cannonata e un frullìo d'ali che sferzavano l'aria indemoniatamente. La caccia era finita. Ma qui cominciava il difficile: le fucilate destavano l'allarme tra le guardie preposte alla sorveglianza della «bandita» e c'era pericolo d'esser colti in flagrante. Soccorreva allora tutta l'abilità di Lappore che, vogando come uno zeelandese, era capace, in pochi minuti, di portarsi dalla parte opposta del lago. Mi faceva sbarcare in un punto non lontano da casa e pensava poi lui, con quei suoi occhi da faina, a tornare sul luogo del delitto, per raccogliere le folaghe uccise».
Quando Lappore era di ritorno, Puccini dormiva il sonno del... giusto, in barba al buon marchese Ginori e a tutti i suoi guardacaccia.
Questa specie di bracconaggio acquatico andò bene per mesi e mesi. Puccini e Lappore si crede-vano immuni, orrnai, dall'art. 428 del C. P.
- Povero rnarchese Ginori, — diceva Giacomo,
— che ce le tiene a fare quelle birillone di guardie? Come impiega male i suoi quattrini!...
Nella baracca di «gambe di merlo» si sentiva spesso discutere tra avventori — contadini, boscaioli, gente del lago — delle fucilate che s'udivano la notte.
— Chi saranno? — domandava uno.
— Gente di Massaciuccoli, — rispondeva un altro.
— Macchè, vengono dal pisano, arrischiava un terzo.
— E le guardie? — interrompeva un quarto.
— Quelle dormono! - intonava il coro.
E poi, fosse una notte solamente, — riprendeva il primo, — ma ogni due o tre è la medesima storia!...
Accadeva talvolta che a queste chiacchierate, fatte senza invidia e malignità, tra. un bicchiere di vino, un ponce e molte boccate di pipa, assistessero le guardie che, punte nell'amor proprio, rispondevano in tono canzonatorio:
— Già.... perchè voiaitri siete tutti bravi! Se ci foste voi li chiappereste subito, ma a.... chiacchiere però!
Allora piovevano consigli e suggerimenti:
— O perchè non v'appostate tra le paglie del pisano?
— Nemmeno per idea, diceva un altro. — Andate la sera per tempo a Massaciuccoli e là vedete quando s'imbarcano.
Talvolta anche Puccini era presente a queste discussioni che, come abbiamo veduto, non potevano riguardarlo affatto! Ed era costretto a interloquire, perchè gli altri, ossequienti, volevano il suo autorevole parere:
— Che ne pensa lei, sor Giaomo?
Non senza imbarazzo, il maestro assumeva un tono indifferente e, fischiettando, rìspondeva distrat- tamente a monosillabi. Se qualcuno insisteva, si rivolgeva alle guardie:
— Se volete, vengo con voi stanotte ad aiutarvi!.. Ci mancherebbe altro! Non s'incomodi, sor Giaomo! -. tanto viene la volta che nella rete ci cascan da loro quei dannati, come muggini! Stasera per esempio, si va sotto Quiesa; íl branco delle folaghe sta a quel riparo, con questo vento.
Manco a dirlo, Puccini e Lappore quella notte andavano da tutt'altra parte, accontentandosi dei branchetti minorí, sparsi un po' dappertutto. Disperazione delle guardie! Sentivano le solite fucilate, senza poter mai incontrare i contravventori....
Ma una notte, appena i soci ebbero sparato, due colpi di moschetto partirono dalla riva e due pallottole, sibilando rabbiosamente, caddero in acqua a pochi metri dalla barca. Scoperti! Il lampo delle doppiette li aveva traditi. A Puccini e a Lappore andò i1 sangue in tasca: rimasero interdetti. Avevano sempre pensato a una possibile contravvenzione ma d'esse presi a fucilate non era loro mai passato pel capo.
Tornarono con scientifica cautela.
Sbarcato e chiusosi in casa, il sor Giacomo giurò a sè stesso di non rischiare mai più la pelle per le penne di una folaga.
— Maledette «tignose», è mancato poco che non mi abbiano mandato all'altro mondo!
Se Lappore veniva a tentarlo, rispondeva con un gesto inequivocabile:
- Poi, ho giurato e tanto basta!
Ma fu giuramento da marinaio, anzi, da cacciatore.
«Dopo quella pauraccia», diceva lui, «per un bel pezzo rinunciai alle folaghe: maledette tignose!...»
Si accontentò di tornare alle «stampe», in botte o nel capanno 10. Ma, poco soddisfatto di questo genere di caccia, andò un giorno a Lucca, tornandone con una civetta ammaestrata. Un miracolo di bravura, gli avevano detto, e, certo, per costare dieci lire, a quei tempi, doveva essere... incantatrice, per lo meno come un'etèra parigina!
L'indomani io, lui e il sor Ugenio s'andò in un viottolo del bosco, tutti compresi d'assistere a cotesto miracolo.
Comincia la scena. Puccini mette la civetta sulla gruccia (noi eravamo nascosti tra le piante), poi, di dietro al suo nascondiglio, tira lo spago che legava una delle zampe dell'uccello. Secondo le pre- visioni, la civetta avrebbe dovuto starnazzare, roteare gli occhi e volgere la testa. Nemmeno per idea: l'animale vola e si posa a terra. Puccini lo raccatta, lo rimette sulla gruccia, torna a nascondersi e ripete il tentativo. Identico risultato. Tre, quattro, cinque volte Giacomo ripete la prova, smoccolando come un turco, anzi come un lucchese puro sangue. Alla decima, prende la civetta, la mette ancora sulla gruccia e le lascia andare un potente manrovescio. L'animale cade a terra fulminato.
A quella vista, il sor Ugenio, con un solenne gesto da senatore romano, si copre il volto col braccio e, rivolto a Puccini, melodrammaticamente esclama:
— Che omaccio!... — e fa le viste di andarsene.
Il maestro, stizzito, contrariato, raccatta il cadavere della civetta e messolo in una tasca al sor Ugenio, gli risponde in tono grave:
— Hai ragione, ma ora fattici il brodo!
La passione alla caccia in sè stessa; le tentazioni di Lappore e di Gingino (un altro della stessa risma); ma, più di tutto, l'acre godimento che gli procuravano le situazioni drammatiche e ciò che provava nell'attraversare, spiritualmente, zone pericolose (riflesso delle sensazioni materialmente immediate) — lo spinsero di nuovo sulle.... acque del peccato!...
Puccini tornò al bracconaggio con tutto l'ardore, le conseguenti apprensioni, le circostanti paure. Data la sua natura psicosensuale, simili prove erano necessarie alla sua arte. Da esse traeva egli i bozzetti, gli studi preliminari vissuti vivamente e li tesoreggiava per la maggiore verità del quadro grande. Tali sensazioni drammatiche Puccini ha musicalmente sentito ed espresso in forme suggestive di grande efficacia. Ve n'è traccia nella Fanciulla del West e nel Tabarro, indubbiamente.
In un giorno di luglio s'era spinto con Gingino oltre la sponda pisana, per uno stretto canale che immette nel «padule Salviati». Non da allora i due cacciatori conoscevano le tentazioni di quel «fosso», entro le paglie del quale nascondevasi qualche germanotto acclimatato, perchè ogni tanto vi facevan scorreria, tornando quasi sempre con la preda. Quella volta erano già in «bandita di Migliarino”, quando, a un tratto: — qué, qué, qué.... — s'alza un'anatra. Il maestro, d'imbracciata, le lascia andare una coppiola. Padella completa!
- Maledetto ciuco!.., rugge Puccini; ma la frase gli rimane in tronco e la rabbia si tramuta in paura. Una voce stentorea grida:
- Alto là!
Presi in trappola!... Due berretti da carabiniere spuntano al di sopra delle paglie. Impossibile la fuga, sarebbe stato peggio.
In breve furono circondati dai gendarmi e dai guardacaccia. Sequestrati i fucili, prese le generalità di entrambi, dichiarati in triplice contravvenzione per caccia in divieto, caccia in bandita, mancanza di porto darmi: Puccini l'aveva dimenticato a casa, Gingino non l'aveva mai avuto; vennero invitati ad allontanarsi. Pezo de cussì no la podeva andar!
Tornarono con la coda tra le garnbe e due musi lunghi un palmo.
- O sor Giaomo, come ci se 1a cava?
- Bah! — rispondeva costernato. — Chi sa?...
- Ma anco i maestri come Iei li mandino in galera?
Giacomo, che andava in cerca di emozioni, allorchè queste arrivavano oltre la misura prevista, si avviliva come un bambino. Non seppe neppure ridere all'ingenua sortita di Gingino.
«Bella figura!» pensava tra sè. «Domani sui giornali ci sarà la notizia e tutti sapranno che il maestro Puccini è cacciatore di frodo! Benone! Maledetta la caccia, le anatre, i fucili, il lago!... Giuraddio, se me la cavo, me ne vado da Torre, per non avere più tentazioni e ricaderci!...
Giunto a casa, si confidò con la signora Elvira, invocando anche il parere degli amici. La sera, grande conciliabolo. Decidemmo che dovesse andare a Pisa, a chiedere consigli all'avvocato Pelosini, senatore del Regno, emerito giurista e principe del foro. Puccini andò ed espose al Pelosini le sue disavventure con aria assai triste. Non omise alcun dettaglio, alcuna circostanza. Il senatore dette in una sonora risata:
- Maestro, il giorno della causa mi telegrafi, verrò io a difenderla.
- E il povero Gingino? — chiese Puccini.
- Sarà difeso anche lui, non abbia timore.
Venne il giorno del processo. Giacomo non vedeva l'ora di uscirne.
Consumato il crimine in quel di Pisa, il giudizio competeva alla pretura di Bagni S. Giuliano. Par-
timmo di buon mattino da Torre, lui, il sor Ugenio, le signore, io e i testimoni a discarico. Il tragitto fu alquanto mesto. Puccini non condivideva l'ottimismo del suo avvocato. Sulla porta della pretura Pelosini era ad attenderci. Si entrò: i soliti convenevoli; ci accomodammo nella sala di udienza, le guardie e i carabinieri da una parte, noi con Pelosini dall'altra.
Finalmente il Pretore e il Cancelliere s'insediano. La causa ha inizio con la lettura del verbale. S'in- terrogano gli imputati:
- Puccini Giacomo, fu Michele, nato a Lucca, cavaliere della Corona d'Italia, che cosa ha da dire?
- Nulla di più di quanto è contenuto nel verbale. Per il resto mi rimetto completamente a ciò che il mio illustre difensore dirà tra breve.
(Il Giudice e il Cancelliere alzano sincronicamente il capo e fissano il senatore).
- Benissimo! — dice il Pretore. — Si accomodi, egregio maestro.
(Quell'«egregio», in quel momento, sulle labbra del Giudice, aveva un valore psicologico tutt'altro che disprezzabile!).
- Antonelli Beniamino, di Torre del Lago, eccetera, eccetera, che cosa ha da dire?
Nulla, - risponde l'interpellato.
La parola all'illustre avvocato onorevole Pelosini.
Questi si alza e dice press'a poco così:
- «Consenta, l'egregio signor Pretore, ch'io definisca questa causa con una immagine ginecologica:
questa causa è un nato rnorto».
(Primo effetto sull'uditorio).
«E ne spiego le ragioni di fatto. Checchè possano dire in seguito i testi a carico, si rimarrà sem-
pre nel campo del supposto, dell'opinabile. Dovè, infatti, il corpo del reato? Dovè l'anatra, contro
quale avrebbe sparato due colpi di fucile Giacomo Puccini? Non c'è, non esiste.
(«Provvidenziale “padella”! » pensava Giacomo, quel momento).
«E allora? — continua Pelosini — allora io chiedo così, in blocco ai testimoni, e col consenso dell'egregio signor Giudice, se essi abbiano veduto almeno levarsi l'animale contro il quale avrebbe sparato il maestro.... I testimoni tacciono? Ottimamente! Questo significa che l'animale non c'era. Perchè allora quei colpi di fucile? Voglio a priori scartare l'ipotesi che il signor Pretore possa pensare che i colpi di fucile, essendo sparati in «bandita», fossero diretti contro un selvatico. L'ipotesi sarebbe anzitutto arbitraria e sonerebbe grave offesa all'illustre maestro Puccini, in quanto non v'è alcun fatto o testimonianza certa - come ora vedrerno - che suffraghi tale illazione, e bisognerebbe, d'altro canto, supporre nel maestro una cosciente capacità a frodare la legge e, nel caso specifico, una determinata intenzione criminosa. Respingo sdegnosamente, anche in linea di mera astrazione, cotesta idea e mi fo garante io, senatore del Regno, dello squisito senso giuridico dell'illustre maestro. Vorrei allora sapere quale giudice sereno, conscio del proprio dovere e custode della propria missione, saprebbe sopra elementi di fatto totalmente negativi, condannare un uomo — un uomo che porta il nome di Giacomo Puccini...
(Le convinzioni eventualmente contrarie del signor Pretore devono aver subito un duro colpo, per- chè il bravuomo annuiva con evidenti cenni del capo).
«Cade dunque l'imputazione di caccia di frodo, o signori! Rimane il fatto incontrovertibile, e che noi lealmente ammettiamo, del maestro che sparò due colpi di fucile. Sì, i due colpi di fucile furono dal maestro Puccini sparati in aria, per.... provare un nuovo tipo di cartucce. Ecco il vero crimine...
(Io avevo una voglia matta di ridere, pensando a quelle cartucce da tre centesimi l'una, che ci fabbri- cavamo da noi).
«Or dunque, caduto il reato di cui all'art. 428 del C. P., cade il reato di caccia in tempo di divieto. Rimane il fatto della mancanza di porto d'armi. Ebbene, signor Giudice, anzitutto il maestro lo aveva a casa e poi, tenendo egli i fucili nella sua barca è come se li avesse tenuti in casa propria. Era tanto sicuro e consapevole di questo che non recò seco il porto d'armi, nè provvide a munirne l'uomo che lo accompagnava».
E qui l'avvocato Pelosini a dimostrare, con una girandola di parole e di citazioni, che Puccini, stando in barca, stava effettivamente a.... casa propria.
Conclusione: i testimoni a carico non sanno dir nulla di compromettente; il Pretore si ritira, e vien fuori, di lì a poco, con una sentenza completamente assolutoria.... per non avere commesso i fatti»!...
Poco mancò che, invece, fossero condannati carabinieri e guardie.
Quando uscimmo di là, Giacomo era allegro come un pesce e propose una baldoria. Amici e nemici andammo tutti in un'osteria a mangiare con appetito formidabile.
- Onorevole, - gli disse - le virtù giuridiche oratorie della sua difesa mi hanno persuaso di una cosa
- Di che?
- Che quel povero pretore sia rimasto convinto da un solo argomento....
- Quale?
- La paura d'essere traslocato in Sicilia!
L'avvocato principe del foro s'ebbe in dono uno spartito della Manon, con una dedica sperticata.
Testo tratto da:
Giacomo Puccini intimo
di Guido Marotti
Da pag. 29 a pag. 43