Gli inizi più lontani, è vero, non sono documentati, ma se dopo molti secoli è ancora possibile veder cacciare con i falconi i Kirghis e i Basckirs possiamo anche farci un’idea da quale parte del mondo provengano queste origini. Sembra si tratti addirittura del II millennio a.c.
Nelle sconfinate steppe dell’Asia e della Mesopotamia, i cavalieri nomadi praticavano la caccia con i falchi, certamente al solo scopo di procurarsi del cibo. Pratica che poi si diffuse rapidamente nel mondo arabo, in Oriente e Occidente, affermandosi presso le tribù stanziate negli attuali stati di Iran, Iraq e Siria.
Nell’ampio frammento rimasto della “Storia Persiana” di Ctèsia (sec. V – IV a.c.) lo storico greco, che era anche medico di Artaserse II, scrive della caccia con i falconi in India, mentre Aristotele (384 – 322 a.c.) dà invece notizia di questa pratica in Tracia, confermata poi nei secoli successivi da molte testimonianze.
Il poeta latino Marziale (40-104) e successivamente Apuleio (125 – 180), hanno scritto della caccia con i falchi praticata dai romani, anche se l’introduzione della falconeria a Roma è stata ufficialmente attribuita ad Audicio, figlio dell’imperatore di origine gallica Avito, ucciso nel 456 durante una rivolta.
Nel 330 Giulio Firmico Materno cita i “nutritores accipitrum, falcorum ceterarumque avium, quae ad aucupia pertinent”, il che non lascia certamente dubbi.
A prescindere dall’effettivo impiego pratico di questi rapaci, nel mondo occidentale è stato da sempre in rilievo l’alto valore simbolico sia dell’aquila che del falco, che è stato anche attributo specifico di alcuni santi, tra cui Sant’Uberto, patrono della caccia.
Presso gli antichi Germani la leggenda tramanda il dio Odino che vola al di sopra della Terra in forma di falco.
Aspetti particolari nell’antico Egitto dove il falco, e più specificatamente il pellegrino, era considerato simbolo regale per eccellenza e il suo occhio “paralizzava la vittima come lo sguardo del faraone i suoi nemici”.
Era immagine simbolica del potente dio del cielo Horus e con le sue sembianze erano raffigurate diverse altre divinità.
A metà del primo Millennio la falconeria, nonostante le limitazioni e le periodiche proibizioni, continua a diffondersi e a rappresentare sempre più un privilegio della classe signorile. Anche la Chiesa si vede costretta a intervenire e nel Concilio di Agda del 506 proibisce ai sacerdoti la caccia con cani e falchi.
Il Brehm, citando una fonte del tempo, dà notizia che re Edelberto aveva chiesto all’arcivescovo di Magonza Bonifacio (673-754), due falchi addestrati per la caccia alla gru.
Anche Carlo Magno (742-814), che fu insuperabile in ogni tipo di caccia, per mettere un po’ d’ordine nelle questioni riguardanti i falchi e chi li utilizzava, promulgò un famoso editto: “Chi ruba un astore addestrato ne dovrà restituire uno uguale più sei scellini. Stessa cosa per uno sparviero, ma con uno scellino e per un falco da caccia più tre scellini”.
Secondo un editto di Edoardo III Re d’Inghilterra, il furto di un astore veniva punito con la morte, mentre quello di un nido costava un anno e un giorno di carcere.
Ma la più antica e vera legge sui falchi da caccia, che considerava anche gli aspetti marginali, è dell’anno 818, in un capitolare di Ludovico il Pio.
Molto articolato e completo, imponeva il rispetto di regole precise.
Riguardo al periodo è anche necessario tener presente un altro importantissimo aspetto. In ambito alto medioevale, la caccia veniva considerata come efficace e funzionale metodo per educare alla severa morale della guerra i giovani aristocratici. Usando le stesse armi e molto coraggio, ogni incontro con cinghiali, orsi e lupi si trasformava in un pericoloso combattimento, qualche volta finito tragicamente. E’ successo, tra i tanti, a Liutprando da Cremona, Bonifacio di Canossa e al primogenito di Carlo il Calvo.
Chi invece praticava la caccia senza dover dimostrare niente e tanto meno dare prova di coraggio, erano i rustici, i quali, non essendogli ancora stata preclusa, la esercitavano con tutti i mezzi possibili: trappole, reti, lacci, bastoni e quant’altro potesse tornare utile. Tutte cose, ovviamente, non degne di un nobile, anche se qualche eccezione c’è stata.
Enrico I (876-936), capostipite della dinastia Sassone, fu soprannominato l’Uccellatore proprio per la sua passione di cacciare selvaggina minuta con le reti e con i falchi. Eletto al trono di Germania abbandonò questo suo divertimento per diventare un grande cacciatore e valentissimo falconiere.
Le notizie di quel periodo riportano una quantità di nomi importanti. Tra questi, in un poema di Ermoldo Nigello, viene esaltata la straordinaria abilità venatoria di Ludovico il Pio, che preferiva cacciare in autunno perché i selvatici erano più aggressivi, e dei suoi figli Lotario e Carlo il Calvo.