Il concetto di gestione della fauna selvatica è quanto di più avulso per l’opinione pubblica. Basta fare un po’ di zapping in tv per capirlo. Che si parli di cinghiali, di lupi o di orsi, il dibattito è sempre fermo lì. Sull’importanza della vita, qualsiasi forma abbia. Anche se di vite nel piatto ce ne mangiamo a iosa senza batter ciglio. Risultato di anni e anni di mancata divulgazione di principi tecnico scientifici e biologici, risultato di anni di animalismo sdoganato, che ha finito per introdurre una nuova forma di oscurantismo e nuovi tabù.
Riguardo alla detenzione dell’orsa che ha ucciso, il dibattito pubblico ha preso una piega non scontata. Assodata l’impossibilità di un ritorno alla vita selvatica, pochissimi ritengono che la cosa migliore per l’animale stesso sia l’ipotesi dell’abbattimento. Riportando la questione su parametri umani (si parla a sproposito di pena di morte, vendetta, ecc.) si perde di vista ogni considerazione etologica e gestionale che guardi un po’ più in là del singolo caso. Che senso ha “salvare” (se così si possa definire la vita in cattività di un grande carnivoro selvatico) un orso, con grande sperpero di denaro pubblico, quando è palese che ciò non sia sostenibile né utile rispetto ad un protocollo che ha l'obiettivo di preservare un’intera popolazione? Il vero fine della gestione umana di specie selvatiche non è forse rendere la loro presenza sostenibile e duratura nel tempo? Conservando in vita tutti gli animali problematici (pensate se lo stesso metro fosse applicato a cinghiali o nutrie!) si finirebbe col rendere impossibile la “rimozione” degli individui aggressivi o di quelli che sono in esubero su un dato territorio. Se non altro per motivi pratici e logistici. Banalmente dove metterli e come mantenerli. Per non considerare che di fronte all’impossibilità di agire, il problema aumenta e con esso tutti i conflitti fino alle estreme conseguenze che purtroppo abbiamo già visto palesarsi nel più atroce dei modi.
Questo argomento è da anni dibattuto all’interno del mondo scientifico. Uno studio di una manciata di anni fa, condotto da un pool di biologi, tra cui gli italiani Piero Genovesi e Luigi Boitani, aveva osservato come con l’approccio compassionevole su singoli individui si perda di vista l’etica di gestione, ovvero il dovere dell’uomo di oggi di preservare la biodiversità nel tempo. Cosa per altro sancita da numerosi accordi di conservazione nazionali e internazionali, non ultimi gli impegni inseriti nelle Direttive Ue e nei piani vincolanti per ogni nazione aderente.
Prendiamo ad esempio il problema delle specie invasive, tra cui si annovera anche il cinghiale in alcune aree, nutrie, scoiattoli grigi ecc. E’ palese che non sia sostenibile salvare ogni singola vita e che la tutela ambientale quando ci sono questi squilibri deve necessariamente passare per l’abbattimento di individui sani, di piccoli e addirittura di femmine gravide. Se sui trattati e nei Piani amministrativi questo è qualcosa di assodato, non lo è affatto nella percezione comune, per cui l’uccisione è sempre sbagliata. Così nascono insensate oasi rifugio per cinghiali graziati dai piani di abbattimento, nutriti e coccolati da instancabili volontari, che allo scopo si fanno finanziare da donazioni e lasciti; vengono presentati piani di trasferimento di animali che coinvolgono organizzazioni estere e progetti di impraticabili sterilizzazioni di massa finanziati anche dallo Stato. Abbiamo visto purtroppo poco fa quali sono gli effetti di una mancata gestione, con gli argini ceduti in Emilia Romagna a causa (anche) dei cunicoli scavati dalle nutrie, specie invasiva che la Lav e altre organizzazioni continuano a difendere oltre ogni logica (addirittura scomodando Tribunali con processi penali per un singolo esemplare), ma anche tassi e istrici, queste specie protette ma gestibili, volendo, come tutte, in deroga, con i dovuti adempimenti di legge. Vedi ciò che giustamente si fa con lo storno, a protezione delle olive.
La Conservazione compassionevole purtroppo non è solo un problema di ignoranza. Ci sono fior fior di biologi e faunisti, evidentemente ideologizzati, che praticano una sorta di obiezione di coscienza, sacrificando le nozioni assimilate per empatizzare con gli animali. C’è un vero e proprio movimento che sostiene che non si possa trascurare il benessere degli animali coinvolti da piani di sfoltimento e che nessuna uccisione per conservazione può di per sé essere giustificata. Ed ecco dunque che una discreta branca di scienziati finisce per dedicarsi allo studio di soluzioni alternative, sterilizzazione farmacologica in primis.
Ma nel frattempo cosa si fa? Si temporeggia, si mandano in tv personaggi come Brambilla, Tozzi, Enrico Rizzi a fare ulteriore confusione, orientando un’opinione pubblica già in balia di un nulla cosmico. E poi il solito copione, sospensione da parte dei Tar, diffide, denunce, Piani pubblici che non vengono approvati. Tutto viene costantemente rimandato a un poi che non arriva mai.
Il danno derivante dall'inazione – si legge in un passaggio dello studio di cui sopra- potrebbe non essere limitato agli effetti sull'ambiente. Lo studioso Jordan Hampton, dell’Università di Melbourne, ha esplorato le implicazioni del prelievo su popolazioni sovrabbondanti di erbivori selvatici usando una metodologia esplicitamente consequenzialista. E' stato dimostrato un effetto positivo sul benessere dei singoli individui (ovviamente quelli non abbattuti) rispetto al non agire. Il mancato abbattimento di cavalli selvaggi in Australia, ad esempio, ha ridotto alla fame migliaia di singoli cavalli (oltre ad aver provocato danni ambientali). L'avvelenamento da parte del rospo della canna invasivo ( Rhinella marina ) porta alla morte di molti predatori in oltre 50 paesi in tutto il mondo, ma gli ambientalisti compassionevoli si oppongono all'uso di nuovi metodi per il loro controllo o eradicazione. Nei conflitti uomo-animale, la mancata eliminazione degli animali problematici può avere conseguenze letali sia per gli altri animali che per le persone. E purtroppo lo sappiamo bene.
Cinzia Funcis
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