L’accreditata tesi secondo cui i cinghiali italiani sarebbero così diffusi e così grossi perchè introdotti con ripopolamenti dall’est Europa, dando il via ad una popolazione più prolifica e resistente, è stata smentita dalle ricerche genetiche. Già tempo fa avevamo parlato delle evidenze pubblicate da Ispra circa l’assenza (o la non rilevanza) nel dna dei cinghiali italiani di segnali di ibridazione, ma date le cicliche proteste animaliste (vedi contro presidio alla manifestazione di Coldiretti) che continuano a perpetrare il mantra della colpa dei cacciatori e delle loro immissioni nei decenni pre 157/92, giova ricordare ogni tanto che le evidenze di queste ibridazioni non ci sono.
Lo studio dell'Università di Sassari, partecipato da Ispra (Scandura M. et al. Resilience to historical human manipulations in the genomic variation of Italian wild boar populations. Frontiers in Ecology and Evolution: 2022, 69), riportato in auge in questi giorni da un articolo del sito agricoltura.it, ha enormemente ridimensionato questa falsa credenza. "L’analisi del genoma di 134 capi abbattuti in 6 aree della penisola e in Sardegna - vi si legge - , ha evidenziato che le popolazioni italiane, sebbene molto eterogenee, sono ben differenziate da quelle europee e presentano anche un minore variabilità genetica. Inoltre i segni di introgressione sia da cinghiali non italiani che da suini domestici sono apparsi molto limitati".
Secondo questo studio nei cinghiali italiani di oggi prevale la componente nativa della variabilità genetica rispetto alle manipolazioni di carattere antropico (immissioni, incroci e ripopolamenti), i cui effetti sono contenuti rispetto a ciò che ci si aspettava. Lo studio ha analizzato il dna di cinghiali provenienti da Val d’Aosta, Liguria, Toscana, Lazio, Calabria e Sardegna, confrontandolo con quello di 7 maiali e di 128 cinghiali europei e di 103 suini domestici.
Confrontando le documentazioni di quegli anni, è stato evidenziato anche che le immissioni avvenute in Italia a partire dagli anni ‘60 in realtà siano state realizzate prevalentemente con esemplari provenienti dalle tenute italiane (Castel Porziano, Maremma tosco-laziale e Colline Metallifere), appartenenti alla sottospecie Sus scrofa majori, ovvero il cinghiale maremmano.
In particolare esiste ampia documentazione rintracciata dal Raggruppamento Carabinieri Biodiversità di Siena e risalente ai primi anni ‘70, di un grande allevamento in provincia di Siena, in un’area gestita dall’Azienda di Stato delle Foreste demaniali, la riserva di Cornocchia a Radicondoli (SI), da cui sono stati trasferiti diversi esemplari a scopo di ripopolamento in varie località italiane del centro - sud Italia.
Il che non significa che non siano avvenute in seguito immissioni dall’est europeo, ma che queste, in misura certamente minore, non hanno inciso sulla variabilità della specie, che appunto mantiene caratteristiche genetiche identiche a quelle dall’originale cinghiale maremmano. Il fatto che si tratti di esemplari certamente più grandi e prolifici, come sottolineato anche dall’esperto Piero Genovesi di Ispra non molto tempo fa, si deve alle maggiori disponibilità di cibo e alle mutate condizioni climatiche e ambientali, estremamente favorevoli per il cinghiale.
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