Era una vecchia casa colonica, abbandonata ormai da molti anni. Si trovava in cima alla collina del ciliegio, cosi chiamata dagli abitanti della piccola frazione, per via del grosso albero che dimorava lì da secoli.
La vecchia e grossa porta di legno, oramai quasi completamente scardinata dal tempo e dalle intemperie, era reclinata su un lato, lasciando libero l’ingresso come se fosse un implicito invito.
Le finestre, raggiunte dai rampicanti, si intravedevano a malapena e il vecchio comignolo iniziava a perdere i pezzi.
Tutto intorno era un brulicare di vita silvestre e la cosa che colpiva di più era l’ordine che la natura aveva mantenuto; ogni cosa era al suo posto, dai meli selvatici ai roseti che abbracciavano il rovo vicino, al grande prato che si preparava ad accogliere l’arrivo dell’autunno e il vigneto abbandonato ma anch’esso in perfetto stato, il tutto come se il tempo si fosse di colpo fermato…e poi c’era lui: il grande albero. Testimone del tempo che scorre, era stato messo li dalla mano dell’Onnipotente come una firma, per attestare la sua opera. Sembrava un vecchio saggio circondato da giovani fanciulli intenti ad ascoltare le storie che egli raccontava.
Stefano di trovava a poche centinaia di metri dal vigneto, nascosto tra due piccole querce e alcune felci intrecciate ad arte; aspettava i tordi.
Era la fine di ottobre, l’estate era stata ladra rubando tempo all’autunno, ma i grossi nuvoloni e l’aria frizzante lasciavano presagire l’imminente arrivo della stagione vera e con essa l’arrivo dei primi “ zirlaioli”.
Qualche gruppetto era già passato ma erano troppo alti per sentire il richiamo. Più in basso, verso il fiume, ogni tanto si sentiva l’eco di qualche fucilata, - forse scendono a riposarsi li - pensò ad alta voce, ma non fece in tempo a finire la frase che ecco spuntarne quattro da dietro il ciliegio, andavano verso la sua direzione. Rimase immobile e quando furono a tiro lascio partire il primo colpo: - ecco il primo - pensò mentre vedeva il punto dove stava cadendo l’animale. Poi lasciò partire il secondo colpo verso l’ultimo dei tre tordi che nel frattempo avevano subito cambiato direzione: - ecco il secondo - questa volta era più soddisfatto, non tanto per la mira, quanto per la difficoltà del tiro.
Si spostò dall’appostamento per andare a raccogliere i tordi e mentre ritornava fu colto dalle prime gocce d’acqua.
Sbuffò, ma l’idea di lasciarsi intimorire da una leggera pioggia non la considerava affatto, aveva passato diverse giornate sotto la pioggia battente mentre cacciava le anatre; era allenato.
Passò un’ora e il numero dei tordi incarnierati era salito solo di due, in compenso quella che prima era una pioggia leggera adesso si era trasformata in un vero e proprio acquazzone.
Si ricordò della casa sulla collina e dopo aver valutato bene la situazione pensò di andare a rifugiarsi li, un conto è l’essere allenati, un conto è l’essere sprovveduti, e siccome il passo si era fermato, si incamminò verso la casa.
Giunse di fronte alla vecchia porta dopo circa un quarto d’ora di cammino, benché fosse provvisto di impermeabile aveva i pantaloni inzuppati e quando entrò dentro tirò un sospiro di sollievo.
Nonostante la casa fosse disabitata da anni, si respirava comunque aria di ospitalità e si percepiva uno strano calore…forse era il non trovarsi più sotto la pioggia battente, o forse era una recondita forma di rispetto... il rispetto di entrare in un luogo del quale nulla si conosce, un luogo dove in passato ci viveva gente e dove forse della gente era morta. Aveva il timore che la sua presenza potesse in qualche modo turbare la sacralità di quel luogo...forse era questo lo strano calore che sentiva.
Qualche pianta selvatica era riuscita a penetrare all’interno della casa, ma in generale, a parte la polvere, tutto il resto era perfettamente pulito.
Si tolse l’impermeabile e si sedette vicino alla finestra; guardava il cielo, guardava la pioggia cadere.
Un rumore attirò la sua attenzione, proveniva dal piccolo arbusto che si trovava vicino l’ingresso: - un topo!- pensò.
Si sbagliava.
Una beccaccia spuntò fuori e si fermo a pochi passi da lui.
Il cacciatore e la preda, in un momento di rispettoso armistizio.
Stefano non credeva ai suoi occhi; la beccaccia se ne stava li senza nessun timore, in quel momento erano di fronte due animali che, per necessità, condividevano la stessa tana.
La beccaccia fece compagnia a Stefano per alcuni minuti, poi, quando la pioggia rallentò i suoi ritmi, il selvatico salutò il cacciatore con un elegante battito d’ali e si allontano nel vento.
In quei minuti migliaia di pensieri affollarono la mente di Stefano, ma neanche per un solo secondo l’idea di una cattura era stata contemplata.
Forse i due si sarebbero incontrati d nuovo, magari in situazioni diverse e forse si sarebbero sfidati. L’uno con l’ausilio del cane, l’altra con la scaltrezza ricevuta in dote da madre natura.
Si racconta che un giorno, sulla collina del ciliegio, è accaduto l’impensabile.
Su quel luogo magico e misterioso, ancora una volta, l’Onnipotente aveva messo la sua firma.
Vincenzo Mazzone