Il vecchio camminava intorno al lago e fissava la distesa delle acque mentre sperava di trovare sulle sue sponde il selvatico di turno: sarebbe stata la pavoncella a concretarsi in vista delle terre da raggiungere e nelle quali avrebbe nidificato. Portava una vecchia doppietta a cani esterni e sul petto ciondolavano alcuni fischietti d'osso e di canna di bambù, per vari richiami a trampolieri ed anatre.
I suoi lunghi stivali, imbrattati di fango, non avevano un colore chiaro e definito anche Perché logori dalle dure battaglie del tempo e la sua cacciatora aveva perduto l'originaria morbidezza per divenire ruvida come le zolle della terra.
Il volto era in tono con tutta la persona: il naso un po' lungo e sottile, la bocca stretta, gli occhi piccoli e vivaci, i capelli radi e nascosti da un berretto che era un cimelio del tempo che fu, le orecchie a sventola, lo caratterizzavano in una fisionomia unica e irripetibile.
Ogni giorno, prima dell'alba, andava ad appostarsi nelle vicinanze del lago, sperando in qualche uccello di ripa o in qualche anatra di passo, perché quelle stanziali lo conoscevano da tempo e non osavano avvicinarsi al suo schioppo: qualche volta avevano sentito sibilare il piombo dei cartuccioni che si caricava. Era un poeta e per lui il lago, oltre ad essere un luogo di caccia, era anche un incontro concreto con la bellezza della natura; sosteneva che dopo morto il suo spirito sarebbe rimasto a circolare sulle acque e sulle rive. Si inebriava della distesa liquida e amava osservare l'airone, dal volo possente e lento, che sostava sulla fanghiglia per rifocillarsi di pesciolini e animaletti vari.
Il vecchio non aveva mai ucciso un airone perché riteneva inutile tirare giù un uccello che poi sarebbe stato inservibile e il suo punto di vista era assecondato da molti cacciatori indigeni che vedevano in lui un maestro di caccia; ed infatti Achille, questo era il suo nome, aveva costruito per essi vari richiami e quelli erano orgogliosi di possederli.
Presso il bar dei cacciatori Achille raccontava loro varie storie e famosa era rimasta quella dell'orso. Era ancora notte e s'era recato alla sua posta, quando vide un'ombra gironzolare nei dintorni e giocherellare con gli stampi, lasciati sul luogo dalla sera precedente.
Achille si avvicinò lento, ma anche timoroso e all'improvviso si trovò di fronte un orso. - Mamma, l'orso! - gridò pavido, gli spianò il fucile contro, tenendolo tranquillo, sino a quando passò dalla stradicciola vicina un carrettiere che lo informò della fuga dell'animale da circo che era nel paese vicino. Era questa una storia spesso ripetuta e che nella fantasia di quelli che la raccontavano, dava spazio ad invenzioni e manipolazioni varie.
Era febbraio e il vecchio sperava in qualche gambetta o chiurlo fidente, traditore della sua natura e della sua sempiterna accortezza, ma spesso si dimenticava degli uccelli e nella posta meditava per ore intere. Era per lui il lago uno specchio di vita dove le onde s'increspavano alla brezza leggera e sottile, pungente e penetrante, che nasceva dai colli per scivolare sulle acque come uno spirito astratto. Di frequente amava uscire dal suo appostamento e affondare gli stivali nel bagnato per sentirsi vivificato e gustare quel venticello leggero che lo ristorava. Secondo lui quel febbraio avrebbe portato molta selvaggina perché sentiva già nell'aria il fantasma della gambetta, della pittima, del chiurlo, della pantana e pure la marzaiola, già alla fine del mese, sarebbe stata presente a pavoneggiarsi sulle acque; e queste previsioni erano tenute in considerazione dai cacciatori locali.
Sedeva nel suo appostamento fatto di paglie e di canne e guardava il verde grano dei campi silenziosi, accarezzati dal vento, tra colli sfumati di grigio, nello scenario di un sole invernale, lucido sulle acque, opaco nel cielo, umido nei suoi raggi penetranti. Tutto ciò era uno spettacolo che gli gratificava lo spirito; era un dono di una natura grande uscita dalle mani di un Dio generoso. Il suo volto di cacciatore esprimeva la ruvida saggezza dei contadini lucani e nei suoi occhi su erano per sempre stampate, come in una pellicola, le movenze di quelle bellezze profonde e significative, fisse e immutabili eppure eternamente nuove e cangianti. Era questo il lago del vecchio, il lago di Achille.
Morì e sulla sua tomba gli amici scrissero: “Visse di caccia e di poesia”. Ancor oggi si racconta che il tampoliere, quando sorvola il suo appostamento, esegue un mezzo giro di perlustrazione: pare che senta l'eco arcana del fischio di Achille a conferma che il suo spirito, vivo e immortale, aleggia nei dintorni.
Domenico Gadaleta