Quando mi fosti proposto ero un po’ scettico: un cocker che non riporta, da addestrare bene?? Però cerca, ha un gran naso, insomma ti regalavano. Ti chiamavi TRIS, per il tuo colore pezzato bianconero con sopracciglia rosse, mi venisti incontro subito scodinzolando, fu un colpo di fulmine.
In prova, ti buttai giù un tordo lontano, cadde in un forracone di rovi, ti tirai il sasso e sparisti subito, non ti sentivo più, ti chiamavo disperato dicendo dentro di me “Vai, ora l’ho anche perso, che cavolo gli dico al padrone??”. Ti trovai accucciato nella posta, mi aspettavi col tordo in bocca chissà da quanto. Mi dissi che eri mio per sempre.
Da quel giorno furono anni meravigliosi, goduti, col miglior cane che avessi mai avuto tra le mani, scovavi di tutto, battaglie coi porciglioni e gallinelle, beccaccini, fagiani e migratoria al passo. Eri grande. Nella macchia avevi perfino imparato, in vagante, a fare il giro largo e poi tornarmi incontro mandandomi in bocca sasselli e bottacci, e anche qualche colombo, piacevi da morire ai bimbi, giocavano tantissimo con te nell’erba, in garage, sulle scale di casa, come tutti certo, ma te eri te e non ti avrei cambiato con nessun altro.
Poi quel giorno con Alvaro, mentre gli scodinzolavi vicino ecco la prima crisi epilettica: uno strazio a vederti, Alvaro diceva questo cane ti muore, e invece dopo un po’ tutto passò ma non fosti più lo stesso. Ti curai come potevo ma il veterinario scuoteva la testa, le crisi epilettiche si susseguirono sempre più frequenti. Non mi riconoscevi quasi più, prendevi la strada e andavi via così al piccolo passo, senza guardarti intorno, inebetito. Dovevo rincorrerti e riportarti nel box, ma continuavo anche a portarti a caccia, nella vana speranza di un miglioramento. L’ultima volta, alla solita posta, mi sembrava che stavi meglio, davi retta, correvi su per lo stradello come ai bei tempi, non eri vecchio infatti, eri solo malato. Ti accucciasti nel tuo solito posto, dietro di me e a quell’unico tordo che passò e che cadde, ti alzasti di scatto vedendo come sempre dove era caduto e mentre ti aspettavo fuori della macchia, sentii di nuovo qualcosa di strano. Ti trovai nel mezzo di un’altra crisi, penosa, col tordo lì in terra.
Arrivò febbraio, caccia chiusa come tutti gli anni, ero al lavoro e mi chiamò Simone consigliandomi di portarti a far reprimere, ti vedeva anche lui, anche lui ci pativa, non ebbi il coraggio, non ce la facevo, non sapevo cosa fare, e a morsi e bocconi passò la primavera e iniziò la tua ultima estate, finchè ti trovai, lì fermo, come uno straccio. TRIS!!! Bello!! Provasti ad alzare la testa, ma ti ricadde subito. Dopo un ora era tutto finito. Ti misi in una carriola, ormai leggero, consumato dalla malattia, inerte. Da una parte mi sentivo come liberato da un peso, mi dicevo che avevi finito di soffrire, trovai un piccone e provai a fare una buca lì, vicino al tuo box, il terreno era di marmo, niente da fare. Chiamai Luciano, caro amico imprenditore agricolo con podere in pianura e una bella quercia proprio in mezzo al campo a un 100 mt da casa. Mi sentì subito al tono della voce: “Vieni Ale, lo mettiamo sotto alla quercia grande”, e venne anche Federico, il mio bimbo quello più piccolo, Riccardo era a scuola.
Ho sempre insegnato ai bimbi che l’uomo non piange, deve essere duro e superare le avversità. I miei figli non mi avevano mai visto piangere. Faccio una grande fossa, è pronta. Prendo un sacco di juta lì nel podere e ti ci metto dentro, piano, sei ancora caldo, o sarà questo caldo schifoso di agosto, sono madido di sudore, bestemmio.
Ho già chiuso il sacco con uno spago, ma lo riapro, voglio vederti ancora un ultima volta, mi ripassano davanti tante scene vissute insieme, io e te e le foglie secche, quando mi riportasti quel fagiano in padule, quel giorno che ti dissi vedendo cadere un tordo impossibile: “se mi riporti questo vado in pasticceria e ti compro una pasta” e dopo 5 minuti tornasti vincitore e la pasticcera che rideva……..e ora sei lì dentro al sacco. Ti accarezzo la testa, Federico mi guarda e prorompo in un pianto disperato, mi squassa la cassa toracica, Tris amico mio, il sole a piombo, il sudore, la quercia ferma, il vento trai suoi rami, un babbo e un figlio affranti che ricoprono dolcemente di terra fresca un canino dolce e bravissimo.
Quanto è il bene che un cacciatore arriva a volere al suo cane? Io ci ho pianto anche ora, sono passati quasi 10 anni da quel giorno. Giudicate voi.
Alessandro Fulcheris