Sin dal primo Novecento era consuetudine da parte dei cacciatori di Molfetta,città pugliese a nord di Bari, organizzare per la prima domenica di ottobre la cosiddetta “cacciamena”, battuta di caccia a lepri e volpi. Si metteva in atto un’organizzazione capillare che richiedeva preparazione e competenza. L’ingaggio dei battitori, la predisposizione di un mezzo di trasporto per gli stessi e per la selvaggina abbattuta, il preventivo delle spese e la quota pro capite. Anche le locali guardie campestri venivano informate dell’evento.
Erano i giovani per primi a prestarsi come battitori, il cui numero doveva equiparare quello dei cacciatori: una ventina circa. Così la mattina dell’evento, alle cinque, ci si trovava in piazza Cappuccini, presso il bar Savoia o dei cacciatori. Tutto era in fermento, come in una grande ricorrenza. Ci si scambiavano opinioni e pareri su fucili e cartucce e su quant’altro poteva interessare la caccia e quella battuta in particolare. E non mancava chi, ancora sotto i sopori del sonno, aveva dimenticato fucili e cartucce! Ma ecco i ritardatari! Si partiva. Giunti sul luogo di caccia il capocaccia predisponeva i cacciatori a ferro di cavallo,distanziati l’uno dall’altro un centinaio di metri. Di contro si disponevano i battitori, giovani aitanti pronti all’evento che avrebbe sortito, fra l’altro, un certo guadagno. Poi, nel silenzio della lussureggiante campagna pugliese, ricca di ulivi secolari, prorompeva il suono del corno atavico per l’inizio della battuta.
Iniziava la festa perché schiamazzi , rumori e grida di ogni genere costringevano la selvaggina a fuggire incontro al cacciatore padrone e segnavano i ritmi dell’intera azione di caccia. Quindi si udivano i primi spari, nel rispetto delle regole imposte, specialmente ai giovani. Guai a non rispettarle! Si era screditati come cacciatori. Altri tempi! quando soprattutto nei praticanti l’arte venatoria c’era il rispetto che proveniva non da nobiltà di censo, ma da interiore nobiltà d’animo. Intanto le battute si susseguivano nelle varie macchie (così definite le ampie zone di ulivi a Molfetta). E lepri e volpi catapultavano sotto i tiri dei seguaci di Diana. Alle dodici subentrava l’ora della sosta e della pulizia dei selvatici dalle interiora. Seguiva la colazione, dove tutto si divideva con tutti. La stanchezza e la fame invitavano all’abbondanza del pasto e a qualche bicchiere di vino in più, dimenticando che le battute non erano finite, perché si riprendeva sin dal primo pomeriggio. E allora si facevano sentire i bollori del vino tracannato e più di qualche lepre scampava alla schioppettata e il cacciatore era lì a dimostrare che aveva tirato dritto. Ma, ahimè,era la lepre che se la rideva alle sue spalle,perché da sempre quando si manca il selvatico, le scuse e le ragioni di cui si va alla ricerca sono tante.
Cacce d’altri tempi, consumate nel cuore di una natura incontaminata, fra uomini saggi e nobili di cuore, umili e generosi, pronti ad educare le nuove generazioni di cacciatori. Ma poi il sedicente progresso ha portato ad una dissennata rapina del territorio e al degrado delle coscienze.
Domenico Gadaleta