Quel giorno Ugo mi chiese di fargli compagnia alla cacciata al cinghiale nella riserva di Querceto. Di primo mattino faceva un freddo cane, tanto che una consistente coltre di brina aveva avvolto ogni cosa a perdita d’occhio. Pensavo: “Se almeno mi venisse un bel verro, poco male, il freddo si sopporterebbe anche volentieri, ma il peggio è che così ti seccano i piedi e magari del cinghiale, nemmeno il puzzo”! La zona di caccia si presentava come una vasta vallata circondata da imponenti colline dai fianchi impervi coperti da macchia alta a perdita d’occhio, spesso fitta ed impenetrabile. Questa piccola e allegra combriccola è ormai battezzata come “Squadrina di Querceto”, un tempo riservata a personalità altolocate o comunque legate alla nobiltà del Conte. Squadrina anche perchè quando le altre comitive, a chiusura di caccia, hanno sbuzzato un centinaio di cinghiali, se qui se ne sono racimolati una trentina, è tutto grasso che cola! Se poi ad una cacciata partecipano oltre venti di fucili, allora ci sentiamo una Squadra vera per davvero. Si capisce bene che con questi numeri riuscire a far bistecche in qualche cingnalaccio è difficile come pedala’ in discesa al buio. Le poste vengono assegnate dal Guardia Rolando, un vigoroso sessantenne, simpatico ed autentico esperto della braccata. A mezzogiorno, massimo alla mezzora successiva, è sempre lui che suona la corna, ereditata dal su’ povero babbo, anch’esso guardiacaccia e gran cacciatore di cinghiali. Mi raccontava che lui: “era per davvero un gran cacciatore di cignali, di quelli veri d’una volta, non quei maiali d’oggi che son boni altro a sbranarti i meglio cani, per Dio!”. Tutti siamo protetti anche da una sorta di benedizione, grazie all’assidua presenza del parroco locale: il prete Don Luciano. Una simpatica figura che in ogni momento è sempre pronto a declamare aneddoti spassosi sui vecchi cacciatori del borgo che ormai hanno appeso lo schioppo al chiodo. Appena scesi trovammo li alcuni vecchietti (Sant’omini!) che avevano allestito un bel fuoco. Fu Rolando a spronare i più restii, abbindolati tra il tepore delle fiamme, a scendere giù nel bosco. Ricordo il Toro (all’anagrafe Ivanetto), uno dei canai, che una volta, fiero, mi rivelò: “Lo vedi quello là”, indicando un cane agile e snello, a pelo raso dallo sguardo intelligente “è il meglio fico del paniere!” Rammento anche il Professore che prendendomi sott o- braccio mi confidò: “Te devi guardà sempre com‘è vestito il canaio, diffida da quello tutto bellino pulito e stirato. Il canaio bravo dev’esse sudicio e tutto strappato, perché la macchia, lui, la deve man già dietro i cignali!” In totale eravamo solo diciassette fucili. Fui lasciato di posta subito dopo Giorgio (per gli amici, Pinzagrilli), in mezzo a quel bosco alto le cui chiome, ormai già svuotate delle loro foglie, apparivano dal basso come una fitta ragnatela. Dopo una ventina di minuti percepii in lontananza i primi cani che abbaiavano. Infilai nel mio sovrapposto calibro 28 due palle Brenneke caricate tempo addietro con l’amico Sergio. Rimuginavo: “Chissà se queste suppostette riusciranno ad atterrare quelle bestiacce nere!” Di lì a poco sentii che i cani scendevano numerosi in canizza. Pochi attimi dopo colsi lo stronchio di ramaglie sopra di me. Poi il silenzio piombò improvviso tutt’intorno per una decina di secondi. Una rimbombante schioppettata di Pinzagrilli mi fece addirittura sobbalzare. Non ebbi alcun tempo di riprendermi: con un gran sfraschio mi si parò di fronte la sagoma nera e sbruffante di un grosso cinghiale, ad una decina di metri. Già imbracciato e con il cuore che mi pulsava in gola all’impazzata tanto da credere di doverlo sputare da un momento all’altro, inquadrai l’animale nella tacca di mira e schiacciai il grilletto. Ebbi la sensazione che quello sparo quasi vellutato non avesse potuto far granché a quel colosso peloso. L’animale si bloccò all’improvviso, come per comprendere se si fosse trattato di uno sparo vero e proprio, oppure dello scoppietto di una innocua scacciacani. Dopo pochi attimi il grifio del selvatico iniziò a piegarsi verso il basso, sino ad incunearsi tra le zampe anteriori. Quindi iniziò a rotolare giù, in basso, verso di me, fin quando due ceni bloccarono il ruzzolio di quel corpo inerme. Alcuni spasmi animarono ancora per qualche attimo quella massa scura, mentre dalla bocca semiaperta usciva un liquido spumeggiante di sangue e bava. Gli occhi roteavano nel vano tentativo di vedere per mano di chi era stato inferto quel colpo troppo doloroso da sopportare. Un breve lamento parve assicurarmi che ormai accettava la resa definitiva. Di lì a poco una sturba di cani di tutti i colori e di ogni genere e forma presero a mordere ovunque il corpo immobile del povero cinghiale, abbracciato alle due piante quasi a cercarvi un inutile riparo. Tremante e sudato mezzo per l’emozione ammirai incredulo quell’esile fucilino a due canne sovrapposte 28 . Mi pareva ancora impossibile aver fermato il re dei boschi con quel fuscelletto. Un calibro che per i più è considerato uno schioppino da capanno. Un episodio che ricorderò per sempre.
Enrico Del Testa
concorrente al 18° Concorso Nazionale per Racconti di Caccia "Giugno del Cacciatore".