Il vento soffiava forte sferzandogli la fronte e arrossandogli gli occhi accecati dal pulviscolo di qualche secca foglia di quercia. Menico era lì ad aspettare la beccaccia che nel primo pomeriggio sarebbe giunta dal nord. Ne aveva viste tante, vive e morte, in quel bosco, paradiso autunnale dell’uccello. Tante ne aveva cacciate! Ora era senza cane. L’ultimo gli era morto appena un mese fa; a momenti ne dimenticava il nome perché la mente era stanca, più di vita che di caccia, e il medico gli aveva proibito di continuare a battere i boschi per i reumatismi che s’erano incuneati nelle ossa.
Ma quando Menico ricordava i cani e le beccacce un flusso magico s’impossessava del suo essere a tal punto che scomparivano le sofferenze e gli acciacchi e si sentiva trascinato dalla voglia matta di riandare, a novembre,per sentieri e boschi. Rivedeva i fedeli amici, per lo più setter,vagare nelle praterie della mente,fermare,scorrere,riportare, dimenticandone i momenti del distacco, della morte.
Nella vita di un cacciatore ci possono essere tanti cani,ma nella vita solitaria e misteriosa di tanti cani c’è un uomo solo: il cacciatore. Così Menico sognava le brune mattutine, i cieli grigi e le forre solatie, regno incontaminato della regina. Poi il sogno, che nella vita del cacciatore è sempre breve,sfumava nella dura realtà e ritornava ai suoi acciacchi, alle sue attuali miserie e alle prescrizioni del medico. Ma quel novembre non ebbe la forza di resistere. Rivisse il rito antico: infilò i pantaloni di velluto, la cacciatora, gli scarponi militari, una manciata di cartucce nella tasca, e via!
Disattese i rimproveri della moglie, gli ammonimenti dei figli,gli ordini della scienza medica e fu subito sulla mulattiera che portava al bosco della sua giovinezza. Ma,ahime! Nessun cane, di tanti che ne aveva avuti,nessuno s’era risvegliato dal sonno della morte; solo le ombre delle querce lo seguivano con le immagini che lo scrigno dei ricordi gli sciorinava nella mente. Una forza misteriosa lo portava avanti, a rivivere perlomeno i luoghi, se non i tempi. E fu lì, al grande sasso sul quale aveva consumato tante colazioni. Era solo, terribilmente solo, con i suoi anni e i suoi mali. Dolci sollievi, i ricordi! Pulì la pietra dalle foglie secche,sedette, caricò la doppietta e attese. Il sole gli era già alle spalle e Menico fissava immobile e impenitente il cielo del nord. Poi si levò il vento e gli occhi gli lacrimarono.
Ma ancora la vista gli permetteva di scrutare lontano, e lontano intuì qualcosa. Sarà, non sarà!
La beccaccia era in arrivo dal grande nord. Una folata di vento la trascinò in basso, rasente le querce più alte. Menico la perse di vista.
Per qualche minuto il vento si calmò e l’uomo accese un mezzo sigaro. Il fumo a spirale salì lento finchè di nuovo s’annunciò la tramontana nel fruscio delle foglie. Alle prime ombre della sera la regina si presentò in un volo ovattato a seguire la via della solita forra. Sarebbe rimasta lì chissà per quanto tempo, fino a quando qualche grande cane non l’avesse scovata per riconsegnarla alla vita o alla morte, se non all’immortalità.
E fu il saluto dell’ultimo uccello. Menico non tentò nemmeno la fuciltata. Sarebbe stato irriverente verso l’ultima regina della sua vita.
Domenico Gadaleta