Ho ancora limpido nelle orecchie il ricordo del primo canto di quell’allodola, che fu anche la prima ad essere raccolta. Era pulita, calda, carica di emozioni. Era la prima allodola che tenevo tra le mani. Né avevo sentito parlare tantissimo, racconti pazzeschi, di numeri e di padelle.
Padelle incredibili. La leggenda narrava che fossero così furbe e difficili da prendere che qualcuno, pare avesse rincorso un’allodola per ore e che quest’ultima, l’avesse fatta franca dopo ben 21 colpi e solo perché questa misteriosa ombra avrebbe finito le cartucce.
Menomale, pensavo tra me, se l’è meritato, a distanza di anni spero che questa misteriosa allodola sia ancora viva. Come vivo è il mio ricordo, quando, con il sole che iniziava a fare capolino alle spalle arrivavamo sul posto di caccia . Eravamo lì, alle pendici dell’ Etna, ho impresso, l’odore del terreno appena arato, i primi raggi di sole che ci scaldavano il viso e le gocce di condensa che brillavano sulla barba di mio padre.
Lo vedevo come un’ eroe, un mito di caccia, sempre attento e sempre pronto a cercare di insegnarmi a riconoscere dal canto e dal volo, lo strillozzo, il verzellino, la cappellaccia e tutti quegli uccelli che frequentano gli apparentemente aridi e solitari altipiani siciliani…. “Noi siamo qui per le allodole.” diceva. “Solo per le allodole!”. Io capivo, ma allo stesso tempo scalpitavo ed ogni uccelletto mi faceva balzare il cuore in gola in ogni caso. Poi imparai a riconoscerle e solo qualche tempo dopo iniziai ad essere più calmo e razionale. Belle ed eleganti, voli e piroette che solo un’allodola può fare, rimanevo lì, ad osservarle cantare sopra i richiami, spesso lo faceva anche mio padre e sembrava galleggiassero sull’aria talmente erano leggere. Arrivavano a gruppetti mostrando con coraggio il petto bianco e forte.
Di primo mattino, arrivavano solitarie le pasturone, spavalde, forse consapevoli di essere impossibili da prendere poichè così furbe che al primo movimento nel capanno sparivano.
Mi sono sempre chiesto dove andassero.
Di fronte a noi c’era questo enorme vulcano, sempre fumante e sempre per metà innevato, era come una figura imponente che ci proteggeva e minacciava. Una volta ruggì, ed io sentii la terra tremare sotto i piedi e mi sentii così piccolo e impotente che mi si oscurò per un’attimo il cuore.
Quel cuore che subito tornava a sbattere nel petto dopo aver udito quel canto, quel canto che preannunciava l’arrivo di una nuova allodola. Quanto era bello.
Spero un giorno, di poter trasmettere ai miei figli l’aspetto più importante che ho apprezzato e capito crescendo, che non era l’abbattimento del selvatico, quello fa parte della caccia, ma i momenti passati con mio padre, i suoi insegnamenti, le nostre emozioni, il cercare di non far trasparire il dispiacersi dopo un rimprovero.
Quei momenti passati con lui, tra magia e realtà.
Danilo Micali