Docente di storia e filosofia al liceo del paese natio, aveva educato generazioni di giovani a vivere con coerenza le proprie idee, Socrate cercava ogni occasione per far loro capire che la caccia è una ragione particolare per inserirsi in una realtà più grande e universale: la natura, che ci riporta al mistero della creazione.
Ora, molto vecchio, e un po' confuso mentalmente, si avvicinò all'armadietto dove custodiva la doppietta cal. 16 e delle cartucce. L'arma portava qualche segno di ruggine e tante ammaccature sul calcio. La soppesò e sentì una nuova forza penetrargli nel cuore. Scomparve quel senso di sfiducia e di abbandono nel vivere. Il passato precipitò immediatamente nel presente e l'uomo, il professore, il filosofo, riprese tutte le energie come ai bei tempi. Si affacciò al finestrino della sua abitazione situata alla periferia dell'amata terra Lucania e restò sorpreso da uno stuolo di pavoncelle che giocherellava in un pantano.
Si armò alla men peggio come può un uomo di ottant'anni e si avviò incontro allo stuolo di uccelli. Giunse al pantano con un po' di fatica, ma con tanto entusiasmo. Si appostò a ridosso di un rigagnolo come ai bei tempi, e attese. Le pavoncelle volavano di qua e di là per gli acquitrini. Socrate sparò più e più volte, ma nessuna veniva giù. S'accorse che i suoi occhi erano stanchi e appannati. Sciupò quasi una ventina di cartucce. Povero Socrate! Una ne giunse a tiro che si fermò nel cielo come a riconoscerlo. Sollevò lo schioppo per tirare, ma non fece in tempo che la pavoncella gli precipitò davanti. L'uccello ferito a morte da altri cacciatori, finiva lì. Socrate la raccoglieva pur sapendo che non era stato lui a colpirla. Poi rammentò che aveva il porto d'armi scaduto, e tornò a casa con quell'unico selvatico, convinto ormai di porre la parola fine alla sua carriera di cacciatore.
Domenico Gadaleta