Guardai fuori dalla finestra. La pioggia continuava a scendere copiosa già da due e più giorni e il forte vento di tramontana piegava le cime degli alberi, facendo scendere le gocce trasversalmente. Presi dalla tasca della giacca il pacchetto di trinciato forte, le cartine e l’accendino, uscendo sul terrazzo di casa per fumarmene una. A farmi compagnia, solo l’allegro tintinnio dell’acqua che cadeva sulla ringhiera di ferro battito del poggiolo. Annusai l’aria. Acqua, muschio, asfalto ed erba bagnata.
Per ingannare il tempo, seguivo il fumo della sigaretta che saliva verso il cielo.
Tornai in casa, presi la bottiglia di vino, un bicchiere, del pane, del formaggio e del salame e tornai sul balcone, sedendomi per terra e benché fossero appena le nove del mattino mangiai pranzo. Poco dopo, non avendo niente di meglio da fare, mi allungai per terra, mettendomi dietro la testa una coperta arrotolata, appisolandomi per un’oretta.
Fui svegliato da un insolito silenzio. Aprii un occhio, poi l’altro e sbadigliai. “Che freddo.” Dissi a voce alta fregandomi le braccia con le mani e mettendomi supino. Presi la coperta e me la misi sulle spalle.
Non pioveva più. Guardai il cielo. Le nuvole erano ancora basse, ma la nebbia pareva fosse salita un po’. Tornai in casa, misi gli scarponi, presi la giacca da acqua e qualcosa da mangiare a merenda, che infilai dentro a un marsupio che legai in vita. Scesi per un breve tratto la strada sotto casa sino al primo tornate, entrando nel prato in ripida pendenza che sale verso i prati sovrastanti. Un silenzio surreale regnava quel giorno sulle poche anime che si aggiravano solitarie per i boschi, nascondendo anche i più semplici rumori. Mi fermai un attimo a pensare, appoggiato al muretto a secco che accompagna per un tratto il sentiero che da Ussolo porta alle grange superiori. Il tempo era pessimo, il clima rigido e il vento, piuttosto irrequieto, portava con velocità il freddo da lontano. Con ottime probabilità non avrei incontrato nessuno durante il mio giro e la nebbia bassa mi avrebbe ben celato agli occhi lunghi del binocolo di qualche “voyeur” lontano. Tornai sui miei passi e raggiunsi casa, prendendo l’arco e le frecce da caccia. Raggiunsi nuovamente il sentiero, che mi portò in fretta alla Madonnina, vicino alla quale mi accesi una sigaretta guardando verso il fondo valle.
La nebbia nascondeva dietro alla sua fitta coltre, Punta Colour alla mia destra, il monte Midia, Rocca Corna e Rocca Cairi di fronte a me, aprendosi solo qualche decina di metri sopra il torrente Maira. Nel silenzio, potevo udire indistintamente il canto delle acque del rio delle grange che scendeva verso il fondo del valloncino laterale.
Le piogge dei giorni precedenti lo avevano ingrossato parecchio e dal rumore, pareva più un torrentello di montagna che un semplice rigagnolo. Tornai sulla via, incontrando poco dopo un capriolo maschio di mezza età che brucava l’erba. Incoccai la freccia e lo mirai lo stesso, anche se il tiro era troppo lungo per
un impennaggio di piume. Appena mi vide scappò via in fretta. L’erba bagnata nascose il rumore dei suoi passi.
I tuoni si stavano facendo sempre più frequenti, segno che il temporale che si era allontanato qualche tempo prima, stava tornando. Udii il canto di un merlo. Pareva arrivare dalle fronde sopra la mia testa, ma benché lo avessi cercato a lungo, non mi riuscì di vederlo. Raggiunsi grangia Passo dopo un infinito e inutile zigzagare e senza dilungarmi più di tanto presso la malga, giusto il tempo per una sigaretta, m’incammini poco convinto sull’ampia carrareccia che mi avrebbe riportato all’abitato d’Ussolo, fermandomi poco dopo. Guardai l’ora. Le due del pomeriggio erano passate da poco. Tornai sui miei passi e con una corsa leggera, raggiunsi e superai le case di borgata Chioligeira e scesi il prato sino al rio delle grange.
M’incamminai silenziosamente, tralasciando ogni pensiero e cercando di acuire il più possibile i miei sensi, ascoltando i rumori che mi portava la leggera brezza e cercando le tracce che la terra bagnata gentilmente mi mostrava. Neppure cento metri sotto le case di Chioligeira, udii per qualche instante un rumore di passi. Prestando attenzione a non farmi sentire, lentamente e stando attento a non avere rametti secchi sotto la suola degli scarponi, seguitai ad avanzare, nella speranza di vedere o udire qualcosa.
Un forte tuono scoppiò proprio sopra la mia testa, una saetta picchiò tra la nebbia sulla sommità di Rocca Colour e nel giro di trenta secondi iniziò a scendere il secondo diluvio universale. Rimasi accovacciato vicino al cespuglio, valutando l’ipotesi di tornare sino alle case soprastanti e cercarmi un riparo, quando dal bosco sotto di me udii che i passi erano ripresi. Smisi quasi di respirare e facendo la massima attenzione a non far rumore, tolsi l’arco dalle spalle e incoccai la freccia.
Il vecchio capriolo, ormai a non più di trenta metri da me si fermò, alzò la testa guardandosi un attimo in giro, quasi volesse maledire quel tempaccio e quella umidità che gli faceva dolere le articolazioni, poi riprese a camminare lentamente. Lo guardai, non udito, non visto e neppure fiutato. Il capriolo scese in un piccolo canalone scomparendo per qualche minuto tra la folta vegetazione e ricomparendo poco dopo ancora più vicino. Caricai l’arco puntandolo, mirando alla spalla e al cuore, alzandomi lentamente dal mio nascondiglio così da avere il tiro libero. Quando fui in piedi, nell’attimo esatto in cui stavo per lasciar andare le dita e far partire la freccia, il capriolo si girò, fissandomi negli occhi. Aveva un’espressione triste, quasi rassegnata, ma non lessi paura nel suo sguardo. Non scappò via, rimanendo immobile a fissarmi, immaginando che la morte sarebbe arrivata comunque, anche se avesse tentato la fuga. Riprese a camminare, lentamente come prima, come se neppure esistessi, come se non gli importasse nulla di me. Abbassai l’arma, mollando lentamente la corda e rimanendo
fermo a guardare il capriolo che senza paura mi camminava vicino. Mi sfilò davanti a non più di dieci metri, seguendo una piccola traccia nel sottobosco, scomparendo oltre la spessa cortina d’acqua. Posai l’arco a terra, rimanendo per parecchio tempo, immobile sotto la pioggia, pensando ad una antica leggenda, narratami da un vecchio nativo americano, il cui nome è perso nella mia memoria, che raccontava di un guerriero Lakota, incapace di uccidere gli animali che guardava negli occhi.
Mai prima di allora avevo capito quell'antica storia. Là, sotto la pioggia, in un giorno simile a molti altri, un cacciatore, guardando negli occhi la sua preda, non trovò il coraggio di ucciderla.
Andrea Tedone