Sosteneva che solo i nobili avessero il diritto di esercitare l’arte venatoria e spesso declamava i meriti dei suoi antenati, per non parlare dei suoi demeriti. Gli avevano fatto credere che avesse delle relazioni genealogiche con Federico II, imperatore e grande cultore dell’arte venatoria e soprattutto amante della falconeria, ovvero della caccia con i falchi. In realtà di quelle presunte nobili radici non esisteva alcun documento che ne provasse la veridicità e Gigi si illudeva, spacciandosi per nobile, solo perchè era titolare di un porto d’armi da caccia che gli permetteva l’uso di una doppietta di pregio ricevuta dal nonno.
In realtà Gigi aveva intrapreso la lunga e difficile via dell’arte venatoria solo per assimilazione. Furono gli amici a convincerlo di unirsi nelle escursioni domenicali di caccia. Questi spesso gli mostravano con foto alla mano, ricchi carnieri di migratori, prospettandogli anche che nella caccia, chi non riesce ad incarnierare almeno una sola lepre, non può mai ritenersi vero cacciatore, perchè per abbatterla è necessario sangue freddo e mira pronta ed attenta.
E così, col chiodo fisso della presunta e mai dimostrata nobiltà, snobbava tordi, allodole, anatre e trampolieri vari, per dedicarsi soprattutto alla lepre, da solo, senza cani, e fornito di qualche blanda conoscenza ricevuta dall’avo, sulla lettura delle tracce e degli escrementi lasciati dal selvatico. Se gli amici amavano farsi fotografare con ricchi carnieri di selvaggina migratoria che in quegli anni del dopoguerra abbondava dappertutto, perchè non era ancora iniziata la sistematica distruzione della natura; e boschi e paludi rappresentavano ricchi contenitori di migratori, lui avrebbe preferito farsi fotografare con qualche leprone abbattuto, a memoria perenne.
Ma non aveva mai considerato che la lepre, selvatico dotato per natura di particolare agilità e velocità, richiede maestria e sapienza balistica per essere abbattuta e soprattutto per fermarne la corsa; diversamente le padelle si susseguiranno di continuo. Gigi aveva la fortuna che nei terreni di famiglia abbondavano lepri autoctone, particolarmente veloci nello scatto, che umiliavano qualsiasi cacciatore inesperto. E proprio quando s’accompagnava con qualche amico, le sue padelle erano all’ordine del giorno.
E lui a giustificarsi con i ma, i se, i perchè e così via. Finalmente giunse il giorno in cui parve che la fortuna gli piovesse dal cielo. Avava deciso di accompagnarsi con amici allodolari e di perfezionare il tiro all’allodola con giusti anticipi, perchè anche in tale caccia ne faceva di padelle e si giustificava col dire che l’allodola non era la sua vocazione, perchè il sevatico non valeva la cartuccia. E mentre gli amici a fine cacciata esibivano grossi carnieri di alaudidi, lui ne aveva incarnierate poche, per non dire pochissime. Quel giorno aveva deciso di non usare gli spechietti, ma di praticare la caccia vagante per tirare alla borrita. E qui avvenne il fattaccio.
Una lepre, messa in fuga da un contadino al lavoro, gli si avvicinò a tiro, non accorgendosi della sua presenza. Gigi, rimasto immobile per alcuni secondi, raccolse in sè le limitate risorse balistiche che possedeva, mirò bene, a suo dire, e la lepre realizzò il suo classico capitombolo. Il nostro cacciatore gli si avvicinò con infinita gioia, senza accertarsi che il selvatico fosse realmente morto. La prese per le lunghe orecchie sollevandola in alto e gridando di gioia agli amici. Ma non appena tentò di infilarla nel carniere della cacciatora, quella con un colpo di reni, gli sfuggì di mano, dileguandosi lontano. E Gigi col fucile scarico, perchè avrebbe potuto ribatterla definitivamente, rimase ancora una volta impotente, ancora una volta beffato. Qualche amico, poeta da strapazzo, gli coniò un verso d’occasione: - E Gigi rimase col nulla im nano/ a sbirciar della lepre il deretano. –
Questa volta però la disillusione fu tanta e tale che non fiatò parola. Erano gli eventi che lo giudicavano, e che possono decidere il destino di una passione, e cambiare il corso della vita, perchè nel giovane cacciatore maturava l’idea di abbandonare la caccia.
E il destino fece la sua parte perchè pare che Gigi sognasse il nonno, don Luigi, di cui portava il nome, che lo ammoniva, severo nell’espressione, con la mano sollevata e l’indice verso l’alto, ad indicargli lo stemma della famiglia. Il nipote credette opportuno avere chiarimenti da un famoso chiromante del paese, interprete anche di sogni, e questi gli rivelò che quanto aveva sognato era di buon auspicio, che gli avrebbe portato fortuna, ma ad una sola condizione: quella mano verso l’alto era un invito ad appendere in via definitiva il fucile al chiodo. L’interpretazione dell’indovino era la stessa volontà del nonno e poichè il nipote ci teneva alla presunta nobiltà e ad onorare la memoria del defunto, corse subito a casa a mettere tutto in ordine. Appese la doppietta sotto la foto ricordo del nonno, accanto alla quale era situato il suo ritratto nelle vesti di Pinocchio. E con quel gesto entrò definitivamente nella gloria della famiglia.
Domenico Gadaleta