E’ sera con un tempo incerto, grosse nuvole gonfiano l’orizzonte scurendo la catena dei monti lontani già azzurri che impedisce la vista del mare. Sono quassù seduto su una piattaforma di legno costruita su un vecchio cipresso a quattro metri dal suolo dopo essermi arrampicato con una scala di legno appoggiata al tronco grosso, davanti si apre un campo di erba tenera e gialla qua e là abbattuta per un evidente pascolo di cinghiali.
Numerose tortore da poco arrivate dall’Africa sfrecciano vicine, azzurre e bianche come aquiloni, qualcuna arriva a posarsi vicino alla mia postazione, il loro canto sommesso e selvaggio giunge da vicino e da lontano. Un colombaccio grosso e grigio come un gatto è in alto sul cipresso e tuba esortando la femmina a covare. In terra un fagiano maschio batte le ali ed emette il grido roco e secco dell’amore, un altro ed un altro ancora risponde. Ascolto un merlo posato sull’albero accanto con il suo canto forte e melodioso, evidentemente per la femmina in qualche luogo dolcemente posata sulle uova di una seconda covata; forse la prima è andata distrutta o i piccoli sono già volati, infatti dopo le nascite, i merli maschi tacciono intenti al duro lavoro di allevamento.
Un coniglio esce dall’altra parte del bosco percorre lentamente il terreno con la coda bianca che spicca tra i colori vividi intensi della primavera come un piccolo faro e si perde entrando nella macchia opposta.
Qualche cinghiale non dovrebbe tardare ad affacciarsi, spero.
Ricordo che da ragazzo amavo salire sui gli alberi per due motivi:
raccogliere i nidi di cardellino di verzellino, di verdone e di fringuello per allevare i piccoli, oppure a volte la sera come adesso, per sentirmi isolato da tutti, quasi animale selvatico, immobile, dove nessun altro poteva salire ed essere così inserito nella vita degli alberi per essere più vicino alle stelle che con l’oscurità cominciavano a brillare.
Mano a mano che scende la notte, la lunga striscia delle montagne azzurre scurisce e quasi improvvisamente si ricopre di luci e pare quasi un firmamento terrestre. Per stare più comodamente seduto appendo il fucile ad un ramo tagliato che sporge dal tronco grosso. Distratto dai pensieri e dall’immensità del luogo pur tuttavia estremamente limitato al mio nido ma così tanto allargato dallo sguardo che si lancia veloce sulla pianura lontana e sulle dolci colline, verdi di grano che così sulla sera già mostra il colore rosato delle spighe appena formate.
Prima di salire avevo fatto un giro con alcuni degli amici cacciatori della mia squadra di cinghialai improvvisamente svegliati con le mie telefonate di richiamo dal lungo sonno che da febbraio arriva a settembre e per i cinghialai a novembre.
L’azienda faunistica venatoria dove ci troviamo, in questi giorni ha seminato una grande estensione di granturco che ha richiamato un gran numero di cinghiali nella zona aveva chiesto l’autorizzazione alla Provincia un loro limitato abbattimento concesso ex art 37 L.R 3/1994. Avevamo osservato molti fagiani maschi lungo la strada campestre, molti conigli e alcune lepri che sul bordo si erano messe in posa per farsi fotografare come eleganti signorine.
Poi in un grande campo appena seminato a girasole abbiamo visto degli strani uccelli, alcuni posati in terra altri appollaiati sui fili della luce: “Sono falchetti, li riconosco dal volo” osservò Claudio, “Non sono sicuro” osservai, “Comunque mi ricordo che in Calabria durante il passo delle tortore a primavera, aprile/maggio, passavano dei falchetti del colore simile delle tortore che laggiù li chiamavano Turturari”. Forse sono quelli”. Guardai meglio gli uccelli con il cannocchiale e alcuni mostravano testa gialla e corpo verde, uno appariva col dorso del tutto azzurro “Ma sono pappagalli” esclamai “è una cosa straordinaria!”.
E rivolto a Claudio: “Hai visto i falchetti, ma hai mai visto i pappagalli volare?” “No certo”, rispose ridendo.
Immobile sulla piattaforma aerea mentre azzurrava la notte coprendo di misteri e di attesa il mio campo pensai a quell’incontro eccezionale: forse il riscaldamento della terra… e immaginai di ritrovarmi in un paese lontano dove un a volta ero stato, caldo e selvaggio e che potesse apparire un bufalo, una iena, un leopardo, un leone tutti pericolosi per la vita più dei cinghiali. Ero assorto in questi pensieri, quando mi accorsi che un grosso cinghiale uscendo dal nulla si profilava in fondo al campo dinnanzi a me, tenendo il grifo in alto mostrava lunghe difese e forse mi aveva sentito, il cuore sobbalza forte, mi precipito a staccare il fucile dal mozzicone di ramo. Riesco a prenderlo abbastanza velocemente, metterlo alla spalla, puntare … ma prima di premere il grilletto della carabina, con una mossa repentina il cinghiale accortosi di qualcosa di strano si volta di scatto e sparisce di corsa tra l’erba alta che scende verso la pianura.
E’ quasi notte, i cespugli che sporgono dall’erba sono animali in agguato o che stanno arrivando, anche perché a fissarli sembrano muoversi, devo forzarmi a non sparare: poi un leggero ticchettio si avvicina dal bosco dietro di me, mi appare un cinghiale di media grandezza, lo intravedo fermarsi vicino al tronco del grande cipresso sul quale sto appollaiato, cerco di puntare il fucile sulla parte grossa del corpo; per evitare di ripetersi la delusione dell’altro episodio il fucile questa volta l’ho tenuto stretto in mano per cui sparo velocemente, il cinghiale fa un salto e sparisce nella notte “L’ho mancato!” Forse ho tenuto il fucile perpendicolare e invece dalla spalla l’ho posato sul petto che infatti è indolenzito dal colpo.
Il silenzio dell’oscurità viene interrotto da altri due spari in lontananza: ad altri due amici è passato certo hanno avuto le mie medesime sensazioni, “Speriamo bene!”.
Poi uno di loro, Benito, anch’esso era stato appollaiato su di un albero, racconta che il cinghiale cui ha sparato gli si è presentato bene sulle strada chiara , è caduto ma si è rialzato e si è buttato nel bosco rendendosi introvabile a quell’ora. All’’altro amico Paolo che l’aspettava in terra è andato incontro lentamente, così è riuscito a vederlo bene e ad ucciderlo.
E ora sul cassone della macchina, tutti lo osserviamo: un giovane maschio, un mezzo cinghiale umido e fumante per il calore della sua vita perduta.
E’ ormai notte piena, piove si sente solo il rumore della pioggia sulle foglie, sui rami e sulle pozze d’acqua.
Siamo stanchi e bagnati usciti dalle rispettive postazioni ci riuniamo alla luce dei fari delle macchine avvolti dal fumo azzurrino degli scappamenti dei motori, raccontandoci degli errori che più di ogni vicenda della vita commettiamo per disattenzione e per la grossa carica di circostanze sempre imprevedibili che capitano a caccia.
Ci separiamo e torniamo verso casa rassicurando di vederci alla vera apertura, quella volta con maggiori soddisfazioni per l’aiuto straordinario dei cani così abili ed intelligenti a stanare i cinghiali dai loro covi nei boschi.
Qualche coniglio attraversa la strada sterrata e si nasconde subito nel bordo boscoso stillante acqua limpida di pioggia e di primavera.
Alfredo Lucifero