La giornata di caccia era incominciata bene, un sole invernale pigro temperava il freddo pungente della tramontana che scompigliava gli alberi intirizziti dal freddo, mostravano i rami spogli e rigidi per le foglie cadute che coprivano il terreno; le pozze d’acqua erano bianche dal ghiaccio di una nottata lunga e fredda. Infatti metà dicembre le giornate sono le più corte dell’anno. Con la piccola squadra di amici decidemmo di cacciare i cinghiali sul grande fosso fitto di rovi che tagliava in due i campi già verdeggianti per il grano e le favette spuntate dal terreno ondulato delle colline che si stendevano fin sotto la città di Volterra di cui si vedeva in lontananza il profilo in ricordo dell’antica Etruria e dello scorrere dei secoli.
I canai battevano il canale e le poste mobili alternavano le posizioni a seconda dell’avanzare dei cani; ogni tanto qualche raro abbaio, poi una canea fitta che si allontanava nei grandi boschi sovrastanti, ma era una volpe a trascinare i cani e non il cinghiale. In attesa del ritorno dei cani, nel frattempo chiamati a gran voce dai canai, decidemmo di esplorare due piccoli boschetti allargati in alto sulla e lungo la strada sterrata che si snodava a poca distanza dal canale. Così fu fatto: mi posizionai insieme all’amico Stefano dove pensavo che eventualmente uscissero i cinghiali.
Il canaio Luciano, piccolo con occhi azzurri pungenti come spilli, aveva con se ancora il proprio cane e scorreva dentro e sopra uno dei boschetti: con un volo diretto e planante qualche raro fagiano, il cane uscì lungo il bordo del boschetto e scendendo si fermò un attimo davanti ad un cespuglio più folto, fece un breve abbaio, poi proseguì oltre la sua ricerca. Da sopra Luciano gridò:” Attenti c’è il cinghiale!” interpretando così il segnale lanciato dal suo cane; fummo subito pronti, ma niente uscì verso di noi; sentimmo però subito dopo una serie di fucilate uscire dal lato opposto, ci domandammo cosa fosse accaduto e se qualche cinghiale fosse stato ucciso dagli altri amici della squadra. Corremmo a vedere: erano usciti quattro cinghiali grossi, ma erano stati tutti padellati, solo uno più piccolo, uscito a parte, giaceva riverso sulla collina. Da sopra in alto, qualcuno gridò: “Uno dei cani giace morto o ferito”. Immediatamente tutti ci riunimmo a vedere e commentare: in effetti la cagna Foresta era stata colpita da una fucilata alla testa ed era morta sul colpo. Dissi “Basta, a questo punto con questa disgrazia, la cacciata è finita. Ma chi è stato così incosciente a colpirla?”. Nessuno rispose, tutti negarono di aver commesso il grave errore.
La Foresta, un piccolo segugio italiano a pelo duro, era il cane più bravo, nessuno ebbe il coraggio di confessare, ciascuno diceva di non aver sparato in quella direzione; uno disse: “ho sparato al cinghiale molto sopra e la cagna non c’era per niente” e un altro “ho sparato al cinghiale dentro al bosco, con quel colpo in testa la cagna non sarebbe potuta arrivare dove è stata trovata”. Il padrone, il canaio Mauro, grosso e di solito con un’aria serena, singhiozzava forte con la cagna in braccio e diceva fra un singhiozzo e l’altro: “era meglio se non la richiamavo dall’inseguimento alla volpe, povera Foresta era la più brava ed era così buona; e ora a caccia come facciamo?”. Montò in macchina e fece per andare via: “me la porto a casa, arrivederci”, lo convincemmo a restare tra noi e ci fermammo a mangiare qualcosa, poi se ne andò con un altro amico per recarsi dal veterinario e capire come fosse stata uccisa. Si sarebbe dovuta anche ricostruire la posizione della cagna quando è stata trovata, così si poteva dimostrare chi l’avesse uccisa, ma qualcuno sostenne che era stata spostata perché c’era poco sangue dove era adagiata tra le ruvide erbe dell’inverno. Infatti era stata fulminata sul colpo, e la sua direzione poteva dimostrare chi avesse sparato risalendo alla varie posizioni tenute dai cacciatori.
Suggerii di non indagare sul tipo di proiettile e su chi avesse sparato e di pensare solo che l’avesse uccisa il cinghiale per evitare amarezze e contrasti tra amici.
Dopo un po’ Mauro telefonò dicendo che per il dolore del cane aveva dimenticato di aver visto un cinghiale che entrava in uno dei boschetti gravemente ferito e a quest’ora era senz’altro morto.
Nonostante fosse quasi buio lo andammo a cercare. Infatti sul lato alto del boschetto riuscimmo a vedere una grande macchia di sangue: il cinghiale doveva essere dentro e morto. S’infilò Luciano nella macchia incurante delle spine e cominciò a seguire le macchie di sangue, finché grido:” E’ qui morto ora lo tiro fuori” e così fece.
Era ormai scuro, il cielo terso era illuminato da una falce di luna ancora pallida, mentre verso il tramonto una lunga striscia rossa ricordava il sole e il sangue dei cinghiali uccisi e quello della cagna Foresta che aveva pagato con la vita la sua fedeltà al padrone Mauro, l’obbedienza e la sua passione per la caccia al cinghiale.
Alfredo Lucifero