Le terre costiere del medio e basso Adriatico erano e sono ricche di uliveti, mandorleti e orti un tempo coltivati da contadini che sbarcavano il lunario vendendo i prodotti raccolti. Molti di essi praticavano la caccia senza mai allontanarsi dai propri terreni. Possedevano per lo più doppiette del cal.16, a cani esterni, ereditate da nonni e padri. A fine settembre già tiravano alle allodole che sorvolavano i campi; ad ottobre cacciavano tordi, molti dei quali svernavano fino a marzo quando ripartivano per nidificare nelle pinete del nord Europa. Apparivano anche i colombacci e ad aprile-maggio erano presenti, in abbondanza, tortore e quaglie. Non mancavano lepri e volpi.
Un tale Simone, proprietario di orti e uliveti, raccontava di essere stato perseguitato da alcune volpi che stazionavano nei suoi terreni, soprattutto nella stagione in cui praticava la caccia ai tordi. I primi turdidi si presentavano già dalla prima decade di ottobre, per proseguire con una certa consistenza per tutto il mese e continuare anche a novembre quando si facevano vivi sasselli e cesene. Molti uccelli si fermavano a svernare fra gli ulivi e nei vigneti; altri tiravano avanti verso boschi e terre di collina, mentre gli stuoli delle allodole si portavano nelle ristoppie dell’entroterra per trascorrere l’autunno. Quando nelle notti stellate di ottobre l’aria si rinfrescava, ventilata dalla brezza del maestrale, si percepiva di continuo lo zippio del tordo bottaccio. E così il giorno dopo tutti i cacciatori correvano alle poste sistemate nei vari terreni dove erano presenti grandi e grossi mandorli svettanti sugli ulivi. Sul mandorlo di buttata si predisponevano tronchi a croce dove si sarebbe posato il tordo richiamato dal chioccolatore. Si preparavano delle mezze cartucce con polvere e piombo ridotti, la cui efficacia non superava i quindici metri. Si era nel dopoguerra e il risparmio era d’obbligo.
Si sparava da fermo, sull’albero; mai al volo, perché si sosteneva che il selvatico sparato al volo e non colpito, tende a non ritornare più. Simone era il primo ad iniziare la caccia al tordo perché i suoi appezzamenti erano situati favorevolmente sulla rotta nord-est, a guardare la marina, donde entrava la maggior parte dei turdidi. Fra l’altro aveva la fortuna di possedere un grosso noce, quasi tre volte la grandezza di un ulivo, che attirava irresistibilmente il tordo non appena questi avvertiva il gorgheggio, anche se sgraziato. Simone infatti non era un gran chioccolatore. Fornito di cartuccette dell’undici, in una posta fatta con rami di fico e canne che celavano completamente la sua presenza in quel fatidico mattino di passo, già dalle prime luci, aveva tirato ai tordi una decina di volte. I selvatici colpiti precipitavano sulle foglie secche sparse sul terreno. Qualcuno rimaneva impigliato fra i rami; sarebbe stato recuperato a fine caccia. Erano dunque appena le sette del mattino e una quindicina ne giacevano stecchiti ai piedi del grande noce. La gioia del carniere gli aveva fatto dimenticare le avide volpi. I tordi provenivano da tutte le diagonali del cielo e quindi sarebbe stato opportuno non preoccuparsi degli uccelli abbattuti se non a fine caccia. Ne memorizzava già una ventina. Ma ecco come proseguirono gli eventi. Il tordo abbattuto dal nostro cacciatore, una volta sul terreno, inerte, era nel mirino delle volpi che con estrema furbizia e mirabile strategia si alternavano sotto il noce per imboccarli e portarli via, nel più assoluto silenzio.
Simone era all’oscuro di quanto accadeva fuori del suo appostamento, nell’intervallo di silenzio fra i vari tiri. Infatti la postazione era così folta di rami e frasche che nemmeno dall’alto i volatili potevano percepire la presenza del cacciatore. E di conseguenza la volpe agiva ben sicura da spiacevoli raffiche di piombo. Verso le undici il passo si esaurì. Simone aveva quasi finito le cartucce. Bisognava raccogliere le prede che prevedeva essere più o meno una quarantina. Lasciò posta e con gioia si predispose alla raccolta munito di un piccolo sacco di iuta. Ma la delusione fu somma, incredibile la visione! Quel mare di tordi che sperava di trovare non c’era. Ne recuperò solo tre. E gli altri? Che fine avevano fatto? Più girava intorno al noce e più rabbia e disperazione gli oscuravano i lumi della ragione! Sollevò gli occhi verso i rami più alti e intravide solo un tordo penzoloni.
Ritornò con affanno alla visione orizzontale del reale e ad una distanza di una quarantina di metri notò la volpe che lo fissava con occhi penetranti, pronta alla fuga, e fuga fu! La sua mente cominciò a capire. La rabbia fece spazio alla ragione e chiari furono gli eventi. Le volpi erano state le vere protagoniste di quella giornata di caccia. Quasi l’intera quantità dei tordi abbattuti era stata sottratta dai predatori e portata nel nulla. Simone allargò la sua ricerca e osservò sparse penne di tordi, testoline sanguinanti, e piume e code ovunque sparse. Nemmeno un tordo era più recuperabile! Si era consumato a suo danno un magistrale furto di gruppo.
Ne passò del tempo prima che si rassegnasse alla sconfitta. Ritornò a casa e fece scivolare fra le mani della consorte il misero carniere di quattro tordi, e pensare che le avrebbe potuto presentare un mazzo di una quarantina. Non c’era ancora passo, le disse.
Per vari giorni, si portò dentro la beffa subita, fino a quando arrivò la confessione. Raccontò il tutto agli amici e alla consorte, che non potettero trattenersi da un continuo e prorompente ridere. Di poi ogni volta che si recherà a caccia, Simone porterà con sè qualche cartuccia caricata a piombo grosso per le volpi, pronto a riparare il torto subito. Ma quelle, bestie astute fino all’inverosimile, non faranno più ritorno nelle vicinanze delle sue postazioni.
Domenico Gadaleta