“Avevo solo cinque anni, ma due cose le avevo afferrate bene: che mio padre adorava la caccia e che io adoravo mio padre. Ci vedevamo troppo poco, per i miei gusti. Avrei dato qualunque cosa per stare più tempo con lui.
Non ci ho messo molto tempo a capire che la strada diretta passava attraverso i suoi uccellini da richiamo. Così, ho cominciato ad interessarmene. Si sudano sette camicie ad allevarli: occorrono i mangimi giusti, le gabbie vanno tenute pulite, bisogna fare in modo che non si ammalino e non vengano aggrediti dai parassiti. Ed è necessario convincerli a rassegnarsi alla cattività e farli familiarizzare con noi.
Poi, può cominciare l'addestramento vero e proprio: per prima cosa vanno abituati al rumore della detonazione. Gli uccelli tendono a zittirsi, non appena vengono a contatto con un fenomeno acustico violento, inatteso. Per abituarli, li esponevano via via a suoni sempre più forti, avvicinandoli, metro dopo metro, ai capanni da cui partivano le fucilate.
Nella bella stagione spostavano i nostri richiami in fondo alla cantina e, aumentando artificialmente le dosi di buio, gli facevamo scambiare l'estate per l'inverno: secondo i loro calcoli la stagione in arrivo era la primavera. Giunto l'autunno, che non arrivava mai abbastanza presto, caricavamo le gabbie in macchina e le appendevamo sugli alberi attorno al capanno: cantavano come un disco”.