La caccia è finita e non ancora ricominciata. La campagna respira con le nuove erbe della primavera, le foglie degli alberi, come per miracolo uscite tra i rami spogli. Verdi tenere, anche dai tronchi vecchi, rugosi per il tempo e per le mille tempeste dell’inverno. Chissà da dove un grido di fagiano, richiama le compagne, piccole, compatte dai colori delle zolle, appena aperte al solco dell’aratro. Laggiù nel bosco nelle macchie folte ci sono i cinghiali in attesa dell’oscurità per uscire, lavorare i campi per cercare gustose radici o vermi succolenti. Sfrecciano nel cielo i gruccioni dai colori dell’arcobaleno emettendo gridi sommessi di richiamo, gli uni con gli altri. Volano che sembrano rondini curiose, si posano sui fili della luce che tagliano i cieli tra i campi più evidenti che nelle città dove si mimetizzano tra i muri delle case. Giù vicino al fiume qualche usignolo lancia il suo canto melodioso, si è cercato di farlo imitare dai canarini permanentemente chiusi nelle gabbie per la felicità dei cacciatori che in questo tempo non possono esercitare la loro passione anch’essa in cova come i mille abitanti delle campagne che esercitano la loro forza riproduttiva. Quante gole aperte in attesa del cibo e dei genitori che lo trasportano con l’istinto dell’amore.
Anche i cacciatori seguitano a frequentare, i campi i boschi in ricerca di quell’amore, della passione che anch’essi covano nel cuore. Il grido del fagiano è un’emozione e cercano di individuarne i colori bellissimi nascosti tra le erbe e i grani e i boschi; nel periodo di caccia si spogliano delle foglie con i primi venti dell’autunno e riescono ad individuarli con le ultime folate calde dell’estate e allora la passione ritorna veemente nei cuori sempre in attesa del nuovo inizio della caccia.
I cacciatori veri tornano nelle campagne anche per ripercorrere i territori che abitualmente frequentano per ricordare le scene di caccia passate; ecco da quel ciglio è partita la beccaccia di cui il cane aveva sentito il profumo con una ferma improvvisa e sicura, offrendo il modo di spararle e ucciderla anche se molto veloce passando tra i rovi spogli dell’autunno e che come per miracolo è rimasta appesa ad una forcella di un albero e sotto il cane la sentiva ma non riusciva a trovarla.
Da quella macchia di spine ora più folta e illuminata di fiori di biancospino è uscito un cinghiale spinto dai latrati della muta dei cani di varie razze marroni e rossi che si era subito avvicinata mordendolo e strappando ciuffi di pelo brinato essendo stato ucciso dal tiro preciso di una posta, dallo stesso cespuglio è uscito un merlo così nero sul bianco del biancospino e dal volo basso e agile tra le foglie fresche.
Ora i terreni oltre il colore della primavera e dell’estate sono resi più vivi dalle tortore che svolazzano bianche e grigie con le code aperte a ventaglio; da terra parte anche qualche raro colombaccio che ha deciso di non migrare costruendo qui il suo nido rozzo e informe che sembra cadere da un momento all’altro. Qualche imprevedibile quaglia canta nel grano da poco spuntato con un suo richiamo preciso “qui qui” cui risponde da lontano il miagolio del maschio “mau mau”. Non sappiamo se sono venute dall’Africa con il loro lungo volo diritto e rasente sulle onde del mare oppure provengono da un quagliodromo vicino. Ognuno da quei terreni pensa: “la vita è solo questa: passeggiare ogni primavera estate in assenza della caccia, ricordare, forse sognare”.
Alfredo Lucifero