Il suo vero nome era Pietro Volpe, duro come la pietra, furbo come una volpe e di lei aveva il fiuto e la forza. Era il primo bracconiere della provincia di Pisa grosso e tarchiato come un cinghiale, la voce spessa e roca con un tipico accento locale; al suo nome venne aggiunto il soprannome di “Braccino” dopo che trovandosi in mano una doppietta vecchia a cani esterni ebbe la curiosità e la sfortuna di provare il funzionamento dei grilletti e contemporaneamente di misurare la lunghezza delle canne; infatti con una mano provava i cani esterni e con l’altra, la destra, la teneva sull’imboccatura esterna delle canne. Dentro c’era una cartuccia abbandonata da chissà quanto tempo, il cane esterno scattò e il colpo partì e insieme la mano destra del Volpe che però seguitò ad esercitare la sua inevitabile professione di bracconiere con la sola mancina che così divenne la mano universale abile più di quella perduta.
Era sposato con due figli ma non s’interessava a nessuno di loro impegnato com’era con la caccia di frodo di notte e di giorno, per passione e per guadagno non facendo nient’altro. Aveva però un’altra passione, forte e segreta per la moglie del compagno di caccia dal seno fiorente e dal nome fiorito “Rosa” e per la figlia che era probabilmente sua. Per frequentare Rosa il sistema era molto semplice. La sera si recava a casa dell’amico, alto e allampanato come un palo di pagliaio dal soprannome significativo “Pane zuppo” (non zuppo d’acqua ma di vino per una sua sovrabbondante disposizione). Sul tardi lo incaricava di sistemare gli stampi per il capanno che teneva a bocca d’Arno (allora si poteva) dove anche lui si recava quando le ore della notte diventavano pallide trovando la tesa già pronta. Nel frattempo faceva l’amore con Rosa sicuro che il marito non sarebbe comparso.
Ma una notte di tempesta con il mare che rotolava verso bocca d’Arno da un lato e dall’altro il fiume che gonfiava per non potersi sfogare e per la pioggia che cadeva a dirotto, un’ improvvisa ondata anomala rovesciò il barchino e del povero “pane zuppo” non se ne seppe più nulla. Oberata dal rimorso, la moglie Rosa decise di non fare più l’amore con Braccino e allora lui s’interesso presso i più valenti medici della zona per farle passare il rimorso e così ricominciare a fare l’amore. Nel frattempo Braccino cacciando lepri, anatre, fagiani, cinghiali e daini non abbandonava la sua vera passione e con la disperazione e il disappunto dei guardiacaccia che non riuscivano a coglierlo sul fatto, frequentava assiduamente il Parco di S. Rossore e varie riserve private o di ripopolamento della provincia.
Era un duro con un carattere chiuso e vendicativo, ad un amico che a parere suo gli aveva fatto un torto, proprio nel momento del passo dei colombacci, gli segò il pino che sosteneva il capanno, così questi quando si recò all’aspetto la mattina all’alba carico di volantini e di fucili trovò l’albero diviso in due con il capanno e le racchette rovesciate in terra. La sua vita era il bosco, il vento, gli agguati a qualsiasi selvaggina piccola o grande, gli spari calibrati e il commercio degli animali e infine i nascondigli segreti e le fughe più avventurose possibili.
Un bel giorno che si dimostrò brutto, si era recato in una riserva sempre in ottobre mese pieno di caccia, riuscì ad uccidere un bel po’ di colombacci e insieme qualche fagiano femmina o maschio, per lui era lo stesso ma con i maschi guadagnava maggiormente, più forti e dai vividi colori rossi: tutta la selvaggina bene o male la inserì nello zainetto per farla scomparire; gli spari numerosi e ripetuti avevano avvertito i guardiacaccia che lo pedinavano e arrivarono velocemente sul posto; lui non facendo a tempo a raggiungere la macchina anch’essa ben nascosta, dovette fuggire a piedi per i campi e i boschi per non essere preso. I guardiacaccia lo rincorsero, lui si buttò in un fosso pieno d’acqua, di canne e di falasco, camminandoci dentro come una gallinella e così si allontanò nascondendosi come un cinghiale ferito. Nonostante fosse circondato, come altre volte stava riuscendo a fuggire senza essere catturato, ma mentre stava risalendo ormai libero la sponda del fossato, un forte dolore al petto lo fece fermare e annaspare. Gettò il fucile in un cespuglio e cadde a terra con la faccia in giù, le braccia aperte e le mani avvinghiate al falasco, e così venne trovato dopo alcuni giorni di ricerca, libero, sfuggito ancora una volta ai guardiacaccia, non alla morte.
Alfredo Lucifero