Allegro mi ha regalato una civetta. È un bellissimo esemplare giovane, perfettamente addestrato. Lui le cattura di notte, nel ferrarese. Poi le addestra per la caccia insegnando loro a starsene ferme su di una lunga pertica. Sa quanto mi piaccia la caccia alle allodole e, considerando la mia amicizia con suo fratello Walter, non ha esitato a privarsene, conscio di farmi un gran bel regalo.
La prendo delicatamente mentre le accarezzo le piume lucenti ed il simpatico testone. Istintivamente apre il becco adunco per naturale difesa pizzicandomi l’indice. Al tarso ha legata una piccola striscia di morbido cuoio. La ripongo con cura nella scatola di legno, in cui l’aspetta un grasso passero: il suo pranzo/cena.
A casa andrà a sgranchirsi le ali in una capace voliera. La civetta è un piccolo e simpatico strigide, il cui canto nelle notti d’estate induce molti a pensare ad accadimenti funesti. La tradizione popolare infatti la considera un uccello che porta sfortuna e molti si augurano che non si metta a cantare nelle vicinanze di casa.
Nell’antica Grecia invece era considerata sacra alla dea Atena, da cui deriva il nome scientifico. Beate superstizioni! La giovane civetta vola tranquilla, pare sia sempre stata in quella grande gabbia ospitale.
Si posa a terra e, forbendosi piume e becco in un angolino sabbioso, gira a destra e a manca la grossa testa, abbassando le palpebre sugli occhioni gialli, curiosa e stupita di tanta ospitalità! “Però, non è poi mica male, come pensavo, la vita in forzata cattività! Ho gustato un bel passero senza nessuna fatica a catturarlo. Ho bevuto acqua fresca e corrente ed ho pure potuto farmi un bel bagnetto ristoratore, ravviandomi le piume che ora sono pulite e libere da parassiti.
Ho poi dormito tranquillamente appollaiata su un bel rametto, al riparo dalle intemperie e da eventuali nocivi. Anche il laccio che ho al tarso non mi dà fastidio alcuno, anche se, per una vita così comoda, qualche sacrificio si potrebbe pur fare! L’unica fatica cui son chiamata è quella della caccia. Me ne sto appollaiata sulla vetta di una canna, dove la mia casa è un grosso tappo di sughero.
Qui, a dir il vero, non mi sento proprio tranquilla, perché durante tutta la mattina sento fischiarmi attorno alla testa dei pallini di piombo e non vorrei che qualcuno mi dovesse scompigliare le piume! Confido però nella buona mira del mio padrone. Sinora mi è andata bene.
Si dice però che qualche mia cugina abbia avuto certi problemini… Ormai ho capito che, quando spuntano all’orizzonte gli stormi di allodole, il padrone da un brusco strattone ad uno spago legato alla pertica che mi ospita. Io perdo l’equilibrio e devo forzatamente alzarmi per un breve volo.
Le allodole curiose accorrono a frotte, mentre io mi rimetto al mio posto. È allora che sento fragorosi colpi partire da un oggetto luccicante che tiene in mano il padrone ed il fischiare dei pallini attorno a me, mentre qualche uccello cade improvvisamente a terra, lasciando in aria alcune piume a volteggiare lentamente. Però, a pensarci bene, son tanti i momenti in cui me ne sto tranquilla sulla mia gruccia di sughero, beandomi al tiepido sole di fine ottobre. Anzi, nei momenti di calma, riesco anche a fare un sonnellino. Perciò non sono gran cosa gli esercizi che devo fare! Poi, quando i colpi sono stati tanti, il mio padrone smonta la lunga pertica e mi mette a riposo nel mio ricovero provvisorio, dove mi sgranocchio con appetito una grossa allodola.
Giunti a casa, potrò farmi un bel bagnetto e mi appisolerò tranquilla e sazia nel mio angolino preferito. E pensare che i miei cugini gufi, allocchi, assioli & c., devono continuare a “cavarsi gli occhi”, ogni notte, nella speranza di ghermire un incauto topolino, anche lui in cerca di qualcosa da mettere sotto i denti; oppure accontentarsi di un magro grillo canterino o un grosso coleottero.
Ci penso spesso, quando sonnecchio tranquilla, a questa cosa; anch’io all’imbrunire uscivo e mi appostavo su un filo dell’elettricità o su un palo del telefono in paziente attesa, al vento, al freddo, sotto la pioggia.
Finché durerà la caccia, sono a posto: vitto e alloggio assicurati! Ma dopo? Cosa mi riserverà il destino? Non so se il padrone vorrà tenermi fino alla prossima stagione, forse sarei di peso e d’impaccio, abituata come sono!
E se mi affidasse nuovamente ad Allegro? Dal momento che sono stata la sua migliore allieva sarebbe un peccato liberarmi. Anche se là non sarei la “primadonna”, sempre meglio di doversi buscare la vita all’aria aperta, piena di insidie e di pericoli. Meglio non pensare a questa evenienza, mi rimarrebbe il pasto sullo stomaco! Intanto speriamo che il passo sia buono e si prolunghi, poi vedremo… Io continuerò a mettercela tutta nei miei esercizi quotidiani. Sì, a pensarci bene, questa vita non è per niente male!”.
Le campagne attorno a Longastrino (Fe) sono immense e sterminate estensioni coltivate ad erba medica, la nostrana “spagnera”. I vari campi sono via via intervallati da lunghi fossati che servono da confine o da scolo per le acque piovane. L’orizzonte è piatto, senza alcuna pianta o altri punti di riferimento. Siamo nel cuore della Bassa Romagna, poco distanti dall’Adriatico. Qui le allodole le chiamano “starlacche”.
Trovano terreni ospitali, ricchi di semi ed insetti. Il cacciatore viene qui da decenni. È ormai affezionato a questi posti che diventano la sua seconda casa durante il periodo del passo autunnale. Arriva molto prima dell’alba, com’è sua abitudine.
Raccoglie i rami polverosi e rinsecchiti di tamerici tagliati qualche tempo fa. Li pianta sulla proda del fossato creando una piccola barriera: non è molto protetto, ma gli uccelli che insidia son creduloni e la civetta desta una irrefrenabile attrazione. Ed il cacciatore lo sa bene.
In passato ha utilizzato pure il gheppio, che è un’alternativa allo strigide, e che è chiamato a svolgere il medesimo gioco, ma la civetta è tutta un’altra cosa. Si è accucciato con lo sguardo fisso all’orizzonte. È una stupenda giornata di sole di fine ottobre: il periodo migliore. Non fa ancora freddo ed il sole è tiepido. E per l’anziano cacciatore non è poca cosa!
Un ragno ha lavorato tutta la notte intessendo una ragnatela dai fili d’argento imperlati da mille goccioline di rugiada che brilla ai primi raggi. L’uomo si incanta ad ammirare tanta maestria, sembra quasi un diadema uscito dalle mani di un abile orafo. La terra sul greppo è secca, rigata da mille crepe perché non piove da tempo.
L’immensa distesa di erba medica fumiga appena il sole prende forza e l’aria si riscalda. La notte è stata umida e la rugiada è scesa copiosa. Gli occhi del vecchio si perdono sull’immensa piana verdeggiante, il suo cuore è preso da vecchi ricordi, la sua mente quasi si perde… E rammenta favolose cacciate di un tempo, cieli pieni di voli, tanti amici ache oggi non ci sono più, gli inevitabili acciacchi dell’età, la sua donna che invecchia assieme a lui, che ha sempre capito che la sua grande passione non sarebbe stata d’ostacolo al loro amore, alla loro perfetta unione, i figli, maturi ed indipendenti, i nipotini, che son linfa vitale per loro…
Però, appena scorge in lontananza le allodole provenienti dal mare, si scuote e mette bocca ai fischietti che ha appesi al collo come una collana ed imita il loro canto, mentre strattona lo spago che fa oscillare il palo della civetta. Ella entra in scena e svolge il suo compito alla perfezione: un breve voletto per poi ritornare sul suo sughero. Le curiosone accorrono, ammaliate anche dal canto, librandosi ebbre attorno al palo. Neppure gli spari le spaventano. Si allontano un poco per poi tornare a curiosare.
Il sole è ormai alto nel cielo ed è ora di togliersi la giacca. In lontananza un trattore arranca sbuffando monotono rivoltando grosse zolle che subito luccicano al sole e si lascia alle spalle una scia polverosa.
D’un tratto appare una nuvola di storni: si alzano in evoluzioni improbabili abbassandosi poi all’improvviso fin quasi a sfiorare il terreno, impennandosi subito dopo, come una grande vela strappata ed ora in balia dei venti. Poi, chiudendosi in un branco serrato e compatto, passano sulla testa del vecchio con un sibilo d’ali. Li segue sino a che diventano quasi invisibili nell’oscurità azzurrognola delle colline lontane.
Ma il cielo, pur essendo sereno e completamente sgombro da nubi, non è chiaro e azzurro come quello che lui ammira dall’alto dei suoi monti. Lassù è spesso di un azzurro cupo, caldo, accecante e tersissimo. L’aria è pulita, trasparente, par quasi di poter toccare con mano i monti, che pur son ben lontani. Qua nella Bassa il cielo non è mai chiaro, persiste quasi sempre una foschia, una “tenebrìa” che l’appanna, assume sfumature lattiginose, quasi spente.
L’erba medica è punteggiata da fiori blu/viola e brilla lucente al sole. Ogni tanto qualche lodola si alza dalla campagna immota, all’improvviso, lanciando il suo canto melodioso verso il cielo. Sono le “pasturone”, quelle cioè che ormai hanno capito il gioco ed hanno sentito il fruscio del piombo vicino alle loro piume. Ogni astuzia sarà per loro vana.
Cantano tranquille ed altissime, librandosi come solo loro sanno, sembrano grandi farfalle che fanno festa al sole. Di quando in quando schiere di fringuelli “spincionano” alte nel cielo. Lontano si sentono altri spari isolati. Il posto migliore però è il suo, se lo è scelto da anni e se l’accaparra ogni volta che scende fin quaggiù con levate antelucane.
I vecchi non dormono tanto perché sognano e fantasticano ad occhi aperti! Ora il sole è quasi a perpendicolo ed il passo rallenta. Si rientra. Un grosso branco di gabbiani volteggia lanciando grida roche.
Roberto Randi
Tratto dal Libro:
Nel sommesso palpito del vivere vedi scheda