Nella mia giovinezza venatoria ho praticato un po' tutte le cacce come quella al tordo, alle allodole, ai trampolieri , alla lepre quando conoscevo i terreni battuti dal selvatico. Se qualche amico mi invitava ad accompagnarlo nei boschi o nelle pinete per la caccia alla beccaccia, approfittavo dell'occasione per mettermi alla prova con le difficoltà che comportava quel tipo di caccia. Mi sentivo un allievo ad eseguire gli ordini del maestro che mi iniziava all'università della caccia a cui non tutti possono accedere, ed io ero tra quei non tutti.
Ho amato ed amo ancora la caccia nella pienezza della sua libertà, tenendo comunque presente il contesto etico di tale passione; ma devo confessare che entrare in un bosco o in una pineta col cane, mi ha creato spesso un po' di ansia; percepivo un vago senso di smarrimento e disorientamento, confortato solo dal sentire il campanaccio del setter e dal sapere che era presente l'amico che mi guidava. Se il cane era in ferma facevo di tutto, con l'amico, per completare l'opera e abbattere il selvatico. Comunque nel bosco mi sono sempre sentito un cacciatore costretto dall'ortodossia dei comportamenti e degli atti che sono dovuti, non del tutto libero, e quindi poco propenso a laurearmi beccacciaro. Simulavo, fingevo, ma dovevo accettare gli inviti dovuti soprattutto per rispetto dell'amicizia.
Cacciatore quindi io normodotato e non d'eccezione, dopo il lavoro e i doveri di padre e di marito, fuggivo verso le mie libertà campestri con o senza amici, per gustare lo zirlo del tordo, il pio pio delle allodole, i fischi ammalianti dei trampolieri, e poi col semiautomatico completare l'opera del prelievo e presentire il gusto delle carni cotte, a tavola.
Un vecchio cacciatore mi sentenziò “Se vai a caccia devi consumare la selvaggina che abbatti, altrimenti no”. E' un'affermazione anche discutibile, ma che ha un fondo di verità'. E se si spara il selvatico senza la volontà di recuperarlo, come ho visto fare in qualche rientro, allora è bene e corretto dedicarsi al piattello e lasciare la caccia.
Nelle giornate libere volavo verso la Murgia, oggi Parco Nazionale, per dedicarmi a fine ottobre, inizio novembre, non solo alle allodole, ma soprattutto ai pivieri, e attirarli con la mia modesta capacità di fischio, ed il piviere che fra l'altro ha carne di cavaliere, se si è occasionalmente ben nascosti, viene a sacrificarsi a Diana. Ritornare a casa con due o tre pivieri dorati e una decina di allodole era una soddisfazione enorme che mi caricava ad affrontare i cimenti del lavoro che nella scuola sono faticosi.. E quando nei primi di novembre si presentavano giornate velate da nebbie, mi trasferivo verso i confini della Basilicata dove, fra le stoppie marce dei grani, si insinuavano rigagnoli che ospitavano vari beccaccini. E di frequente mi capitava di incontrare cacciatori cinofili già all'opera. Non mi intromettevo, ma aspettavo. E assistevo alle corse sfrenate dei cani che mettevano in fuga i piccoli scolopacidi, e alle irose bestemmie dei proprietari cacciatori che vedevano fuggire beccaccini come farfalle alla velocità della luce e loro impotenti e rassegnati.
E quando gli altri avevano finito di cacciare, mi si preparava il campo di battaglia del tutto libero, sapendo che alla spicciolata i selvatici sarebbero rientrati, picchiando dalle altezze celesti a godersi pasture e solitudini, nell'ovattato silenzio della nebbia. Ed io maniaco cacciatore senza l'amico a quattro zampe. Cosa avrei dovuto o potuto fare? Rammentavo qualche rivista venatoria dove avevo letto che se non si possiedono cani ben preparati per il beccaccino, è meglio cacciarli senza, zigzagando lentamente e attentamente tra le stoppie bagnate dai rigagnoli o dalle piogge e sperare nella fuga ravvicinata del re dell'acquitrino.
E così dopo aver atteso il rientro dei vari uccelli , mi mettevo all'opera con paziente lentezza e di tanto in tanto, sgneccando appena, lo scolopacide partiva e di frequente, ma non sempre, riuscivo ad abbatterlo. Bisognava cercarlo subito, perché, se ferito, l'uccello scompariva, e così recuperavo quasi tutti i beccaccini che avevo abbattuto. Quando i selvatici al laccio raggiungevano il numero di quattro o cinque, stanco per aver scarpinato per ore fra le reste del grano, decidevo di lasciare il mondo in pace, o di abbattere qualche allodola con tiri meno impegnativi e più riposanti.
Oggi quei terreni sono stravolti. Non c'è più la stoppia che viene immediatamente eliminata da incendi o diserbanti vari; le piogge sono diminuite per i cambiamenti climatici e quei rigagnoli sono stati bonificati o alterati dalla cementificazione selvaggia. Nei nostri giorni qualche beccaccino può ancora trovarsi, ma non più come nei tempi andati, e battere terreni aridi oggi è come amare una donna senz'anima. E allora bisogna continuare a sperare nei migratori più comuni, come tordi, allodole, merli, cesene, ecc. Anche questi non più abbondanti come una volta. Ma la caccia deve continuare, anche se gli anni passano, per non morire da vivi, e continuare a vivere per sempre.
Domenico Gadaleta