C'è una ragione per la quale l'uomo sin dagli albori della sua esistenza ha avuto nei confronti della natura un atteggiamento di ricerca e di possesso che lo ha costretto ad inventarsi dei mezzi per possedere ciò che osservava. Mezzi fra i quali armi rudimentali che si sono evolute fino ai più sofisticati fucili da caccia.
Così si è scoperto cacciatore non tanto per vivere, quanto per sopravvivere. Senza mezzi di caccia e di difesa probabilmente i primi umani sarebbero scomparsi. Oggi sembra ridicolo parlare di possesso della preda per la sopravvivenza, ma resta legittimo parlare del piacere della preda che è componente fondamentale dell'essere umano. Tale piacere a livello istintivo esiste in quasi tutte le attività. L'agricoltore porta in sè il piacere della raccolta, il pescatore vive compiacendosi della pesca, il cacciatore preleva la selvaggina col desiderio di possederla e di consumarla. E se vogliamo anche nell'attività sportiva esiste un piacere che si sublima nel possesso della vittoria. L'atleta lotta contro la forza del vento per vincere con i suoi muscoli, lo sciatore deve aggredire la neve per il piacere di violentarla con gli sci, il calciatore deve possedere il pallone e travolgere l'erba per vincere e non subire la sconfitta, lo stesso pilota di formula uno deve consumare energie interiori ed esteriori nella lotta per il primato. E così via. E' chiaro che tutti questi comportamenti vanno contestualizzati nel rispetto di limiti e leggi che non danneggino la natura e la stessa vita sul pianeta.
Così nella caccia questo ineliminabile istinto di preda va vissuto nei limiti delle disponibilità che la stessa natura può offrirci, ma non può essere mai abolito pena il proliferare di bracconieri e usurpatori che metterebbero a rischio la sopravvivenza di specie anche rare e in via di estinzione. Ed allora si pone l'autocoscienza dei limiti che la natura stessa ci impone. Se non è più possibile tornare a casa con carnieri cospicui e consistenti, deve essere senz'altro accettabile anche il possesso di pochi selvatici abbattuti che qualifichi e non quantifichi l'acquisizione della preda.
La natura per sopravvivere ai limiti che lo stesso uomo le ha imposto col potere di sottrazione e di devastazione, ha affinato nelle sue creature una forza di sopravvivenza forse sconosciuta fino a a qualche tempo. Non esistono più tordi che si abbattono facilmente con un abbozzato richiamo. Anche nella caccia alle allodole, se vogliamo conservare il rispetto della specie, dobbiamo limitarci all'antico fischietto di latta dei nostri avi, senza ricorrere a mezzi dove la nostra nobiltà di essere cacciatori si degrada. E solo così potremo fare la nostra parte per riequilibrare rapporti perduti con la natura, con la speranza che l'intera umanità prenda coscienza della situazione in cui si trova l'intero pianeta. Il rapporto uomo-natura va contestualizzato in una visione di sobrietà di interventi e di predazione che l'uomo consuma anche e soprattutto a danno di sè stesso, perché l'umano è natura nella natura.
Non c'è nessun segno di sedicente progresso che non derivi da trasformazioni di elementi naturali. Nessun dominio ci è stato dato sull'oggettività che percepiamo fuori di noi, se non un uso moderato come usufruttuari, rispettando i doveri che abbiamo anche nei confronti del Creatore. E allora se dopo ore di paziente attesa in un ambiente umido dove scorre il silenzio degli elementi e il tempo sembra farsi eterno, al mutare degli elementi e portata dalle ali del vento, arriva un'alzavola che abbattiamo sotto la spinta di questo nobile e incancellabile piacere di preda, dovremmo compiacerci con noi stessi e con Madre Natura che non ha annullato per sempre in noi cacciatori la speranza di essere. Anche tornando a casa col carniere vuoto, la speranza non muore mai, soprattutto quella di vivere; e così un germano che scorre sotto i nostri occhi con quei colori imperdibili e quelle inconfondibili tonalità grigie, deve essere una ragione per un domani da vivere.
E se nelle attese ottobrine, quando dovrebbero concretizzarsi i passi dei colombacci, dei tordi, delle allodole, attenderemo speranzosi quel giorno di passo che ci sarà sempre, e comunque i colombacci sono passati in numero consistente ma non hanno dato retta ai nostri allettamenti, e i tordi hanno creduto soltanto allo zirlo dei consimili senza credere minimamente alle nostre ansie canore e le allodole hanno tirato avanti verso le piane dell'entroterra, stanche delle notti migranti, e siamo tornati con pochi capi; in noi, senza rimorsi e rimpianti si è consumato il nobile piacere della preda, sapendo che domani sarà un altro giorno. E allora andiamo avanti così, con nobiltà e orgoglio, fino alla fine, quando, fuori dalle apparenze, ritorneremo nel piacere di essere.
Domenico Gadaleta