Il ciavardello, o sorbo ciavardello è un albero appartenente alla famiglia delle rosacee e può raggiungere un’altezza di 15/20 metri. La corteccia ed i frutti venivano usati in erboristeria per la cura delle coliche intestinali, da cui il nome scientifico deriva (tormina in latino significa colica). La corteccia, grigio-bruna è liscia, ma col tempo diventa rugosa e screpolata.
Le foglie assomigliano a quelle degli aceri, color verde brillante nella parte superiore, più chiare nell’inferiore. I fiori compaiono fra aprile e giugno, bianchi e molto profumati attirano una grande quantità di api. I frutti, ricchi di vitamina C, sono ovoidali, dal sapore acidulo, rossastri prima, poi color ruggine e punteggiati da lenticelle. Restano sulla pianta per tutto l’inverno fornendo cibo agli uccelli (turdidi in particolare), proprio come il Sorbo degli uccellatori.
Lo si trova più di frequente ad altitudini comprese fra i 300 e gli 800 metri s.l.m. Nelle nostre colline sono abbondanti, se ne trovano un po’ dappertutto, specie nelle vallate di Lutirano. Famosi per bontà e grandi prese furono quelli di Fattipiano, Vangiolino, Mondara (dove per anni si impiantò un appostamento fisso per averne l’esclusiva), Biscione, Grisigliano, tanto per citarne alcuni.
Al vecchio podere sul crinale gli uomini erano cacciatori. Il capofamiglia cacciava la lepre con un mezzo segugio (leggi cane da pagliaio) come allora si usava, almeno nelle campagne. Nella sua progenie vi era stato senz’altro un segugio… ma molto tempo fa. Perennemente in abiti da lavoro, come ogni contadino che si rispetti, era di poche parole. Forse a causa della dentiera, annerita dal fumo di innumerevoli toscani, che faceva “clac, clac”, ogni volta che apriva bocca. Cacciava sempre da solo.
Slegava il cane nei pressi di casa, situata in splendida posizione e circondata da ampi campi, con tanti boschi attorno. Lo scioglieva quando albeggiava e le luci tremolanti delle città della Romagna si vedevano ancora nette e distinte, rendendo il paesaggio poeticamente unico, quasi irreale. Aveva per fucile una vecchia doppietta a cani esterni e le canne damascate, infallibile. Si appostava in una delle tante “bocchette” di quei monti e difficilmente sbagliava; il cane indirizzava sempre la lepre dov’era lui. Appena libera la cagnetta cominciava a cacciare, naso a terra e scagni allegri. Si sa, questi meticci a volte hanno un fiuto eccezionale ed una innata passione. Su e giù per il campo, dipanava con perizia tutti i passi fatti dall’orecchiona durante la notte.
Poi gli scagni diventavano più convinti, ravvicinati, incalzanti.
“I l’a alveda”. (L’hanno alzata/scovata), dicevano da casa. E la canizza echeggiava per campi, boschi e valli, decisa.
Passava lento il tempo, rendendo piacevole la cacciata. Poi, d’improvviso, un colpo, difficilmente due. Il silenzio tornava sovrano sulla campagna.
Preceduto dalla sua cagna, giungeva sull’aia di casa con la bella lepre dal ventre candido, le lunghe orecchie carezzavano la polvere. Si scherniva, parlando di caccia, sostenendo di non sparare affatto bene. Se durante una battuta alzava un branco di starne, anche se a tiro utile, non imbracciava neanche la doppietta “A so’ abituè a tirè cotra tera; an so’ bon a tirè ed vol” (Sono solito/abituato a sparare contro terra, verso il basso; non sono capace di sparare a volo).
Lo stesso faceva con un fagiano, magari sorpreso a razzolare semi nei pressi di casa. Non esitava allora ad avvertire il dottore, suo amico, o anche un cacciatore di passaggio per quei monti. Pur essendo quasi analfabeta era dotato di rara saggezza ed educazione, dote abbastanza rara già a quei tempi ed oggi quasi completamente dimenticata, inconsapevole interprete bucolico di etica venatoria.
Non disdegnava però, nelle annate di grande passo, che allora erano piuttosto frequenti, la caccia al pero. Suo figlio, invece, cacciava soprattutto selvaggina migratoria: colombacci sul valico di fronte a casa, dove, specie nelle giornate con vento di scirocco o con tempo perturbato valicavano numerosi; aveva qualche gabbia di richiami che utilizzava in un capanno di frasche, ma soprattutto si dedicava alla caccia al pero acerbone.
Costruiva piccoli capannetti di frasche con una non comune perizia. I peri non mancavano certo, anche nei pressi di casa sua. Ve ne era uno addirittura a poche decine di metri, dove era stato costruito un capanno utilizzando anche vecchie pietre reperite poco lontano. Si sa che la fatica non difettava per i vecchi cacciatori, avvezzi a ben più gravi disagi.
La bella pianta svettava sul bosco circostante e, a giudicare dal capanno ben fatto, doveva avere una attrazione particolare per i tordi in migrazione. Erano infatti i suoi frutti di piccole dimensioni, quelli maggiormente appetiti. Sì, perché esiste, almeno sui nostri monti, una varietà che dà frutti più grossi e rotondeggianti, meno ricercati ed appetiti. Di solito faceva buone prese e qualche capannista dal misero carniere non esitava a rivolgersi a lui per… integrarlo. A qualche cacciatore da capanno vanitoso, piaceva rientrare in paese con un bel mazzo di uccelli.
Una mattina di metà ottobre, Beppe ed io, eravamo come al solito al capanno. Il passo era scarso ed un venticello teso non invitava di certo i pochi uccelli in transito a fermarsi. Beppe ad un certo punto decide di fare una capatina ad un pero che sa lui.
Prende la doppietta, 15 cartucce e va.
Rimango in solitaria attesa di migratori che non arrivano. Il vento rinforza ed allora comincio a ritirare i richiami. Dopo averli riforniti di acqua fresca e becchime li ripongo nel capanno.
Ormai è mezzogiorno, “Tornerà pure Beppe” mi domando. Ma non si vede nessuno. Sbocconcello di malavoglia il mio panino. “Ma dove sarà andato?”. Una strana inquietudine m’assale e mille presentimenti m’affollano la mente. Magari è caduto, si è fatto male e non riesce a tornare. E se gli fosse partito un colpo accidentalmente. A volte, purtroppo, capita! M’avvio pensieroso verso il crinale alla sua ricerca quando un bel setter bianco arancio mi viene incontro scodinzolando.
Poco dopo arriva anche il cacciatore che sta rientrando. “Ciao, hai per caso visto Beppe?”. “No, ma non è al capanno con te?”. “Sì, c’era, poi è uscito per andare ad un pero e non si è più rivisto. Sono ore che è andato, non gli sarà mica successo qualcosa?”. “No, stai tranquillo, magari farà del buono”, risponde mentre richiama il cane e prosegue il suo cammino.
Ma l’ansia e la trepidazione stanno prendendo il sopravvento. Con le mani ad imbuto sulla bocca urlo “Beppeee, Beppeee”. Nessuna risposta. “Ma dove si sarà cacciato. Accidenti ai peri e a chi li frequenta. Caccia vigliacca; aspettare un povero uccello e fucilarlo mentre si sfama”. “Beppeee, Beppeee” continuo ad urlare. Forse i miei richiami sono coperti dal vento che scompiglia le foglie degli alberi, con raffiche rabbiose. Silenzio di tomba. Il vento sembra placarsi ed il cielo pian piano si rannuvola. Ancora lo chiamo a squarciagola.
Niente. Sconsolato, me ne torno al capanno.
“Ma cosa sarà successo, perché non torna?”. Non so cosa fare, dove andare, a chi chiedere aiuto in questi monti desolati. Quando ormai sono preso da un’ansia irrefrenabile, eccolo spuntare in vetta al campo. Procede in fretta, ha la “saccona” gonfia. “Ora mi sente!”.
Ma non arrivo ad aprire bocca perché eccitato mi dice “Mi son fatto mangiare dai tordi, vedessi che lavoro! Ho finito le cartucce, ne ho presi 16, perché ne ho beccati due con un colpo”.
Certe prese al nostro capanno erano impensabili. Molto buono per gli uccelletti, ma i tordi erano scarsi, per non parlare dei merli. “Dai, vedo che hai già sistemato tutto, torniamo fin là; ne ho lasciati diversi in pastura”.
Partiamo in fretta. Appena giunti sul posto ci sistemiamo alla meglio nel capanno. È piccolo, si fatica a starci in due e ci si entra quasi a carponi.
La nostra attesa è breve perché subito arriva un merlo, seguito dopo pochi attimi da un bottaccio. Si odono tanti zirli nei boschi circostanti, ma ormai è tardi. Meglio rientrare a casa, forse anche loro saranno in pensiero.
Gli zirli si susseguono, insistenti, mentre noi ci incamminiamo.
“Domattina veniamo su presto, ti do una mano a “tendere”, poi vengo io al pero. Dovrebbe essere un’ottima mattinata, con tutti gli uccelli che ci sono in giro! Anche se è una caccia che non mi ha mai entusiasmato ”.
Dormo poco, mi par di sentire ancora gli zirli, e vedo ombre tuffarsi nel folto della grande pianta. Finalmente è ora di alzarsi. Il vento s’è acchetato ed il cielo è sereno.
Scendo in fretta lungo il sentiero che porta alla mia meta. Ho il cuore in gola. Ecco la sagoma del pero, ormai sono arrivato. Ma fatti pochi passi, un improvviso colpo di tosse mi fa rabbrividire.
“Chi è al capanno?” dico per farmi coraggio. “Sono io Osvaldo e tu sei Roberto? Ti ho riconosciuto dalla voce. Come mai non sei al capanno?”.
“Ma, stamane abbiamo ospiti e saremmo in troppi, ho pensato di fare un salto fin quaggiù” mento spudoratamente. “E te, come mai da queste parti? Non ti ho mai visto su questi monti”. “Ma, ho il cane che non sta troppo bene. Così ho pensato di venire a questo pero che frequentavo quando ero giovane.
A proposito, hai qualche fiammifero da lasciarmi, penso di averne pochi e se qualcuno mi si spegnesse col vento… Se il capanno fosse più grande potremmo starci tutti e due”. “No, no, stai pure. Eccoti i fiammiferi.
Io torno su. Ciao”.
“Ma come avrà fatto ad essere già sul posto così presto. È ancora buio pesto. Per di più in una giornata così. Che abbia sentito i colpi di ieri?”.
Con questi pensieri in testa ritorno sui miei passi, gonfio di rabbia. “Proprio oggi doveva venire!”. Giungo al capanno e metto Beppe al corrente dell’accaduto. “Porca miseria, questa è sfortuna” esclama contrariato.
Cacciamo svogliatamente pensando al tripudio di uccelli attorno al grande pero. Quella fu una buona giornata di passo, tanti fringuelli e “traversi”, ma un solo tordo.
A sera incontro Osvaldo al bar. “Com’è andata stamane?” chiedo con curiosità infantile. “Ci credi, non ho visto un uccello! Sono rimasto fino alle 9, poi non ho resistito più e me ne sono andato. Eppure quel pero una volta era tanto buono! Neanche un merlo, mi sembra quasi impossibile”.
Finalmente mi tranquillizzo. Ma in fondo un po’ mi dispiace che l’amico non abbia nemmeno scaricato!
Così è la caccia al pero: oggi è pieno di voli, domani il deserto. Questa è una caccia che non necessita di preparazione del sito, a parte una modesta pulizia del terreno circostante, se molto sporco. Il capanno, nella maggior parte dei casi, è costituito da una intelaiatura di piccoli paletti, ricoperti da frasche, ginestre, rami di pino. Talvolta il tetto è ricoperto da un telo impermeabile: le giornate di tempo perturbato sono, generalmente, le più redditizie. Anche quando c’è nebbia, pioggerella. Ci si apposta di primo mattino (gli uccelli muovono presto) con gli occhi incollati alla pianta. Infatti bisogna stare molto attenti perché gli uccelli di solito si posano nelle parti interne, quelle più protette. Poi, pian piano, si spostano sino a raggiungere i grappoli più maturi.
Staccano con forza i dolci frutti, che ingoiano interi, saziandosi.
Improvvisamente frullano lontano, protetti dal bosco. I voli si susseguono, quasi ad intervalli regolari. Spesso si annunciano con brevi zirli, che s’avvicinano sempre più. Merli e tordi sono i frequentatori abituali, ma non mancano cince, codibugnoli, pettirossi, fringuelli ed altri uccelletti.
Quando c’è buon passo di colombacci, non è raro sorprenderne qualcuno sul pero, che, anche per questa specie, è d’una attrazione irresistibile.
C’è anche un’altra caccia, pure preferita dagli abitanti delle campagne, e non solo. Si tratta della caccia alla spinella (biancospino) come da noi è definito il biancospino. Pure questi frutti maturano più o meno nello stesso periodo. Questi arbusti spinosi regalano piccoli frutti di colore rosso di cui tanti uccelli sono golosi, turdidi in particolare.
Venivano di solito piantate attorno alle case coloniche (una siepe bellissima era attorno al podere Spianamonte, in quel di Gamberaldi) e non era raro che, durante inverni rigidi e nevosi, come un tempo avveniva, i contadini potessero tranquillamente sparare dalle finestre di casa.
Erano per lo più le cesene a farne le spese durante gli inverni freddi e con tanta neve. Cacciate che non davano soddisfazione alcuna, ma rendevano talvolta pingui carnieri, che era la cosa più importante. Gli uccelli venivano venduti a commercianti e talvolta anche ai fruttivendoli, che li esponevano fuori dalle loro botteghe riuniti in mazzetti. Si metteva così da parte un piccolo gruzzolo, che andava ad alleviare le penose condizioni in cui versavano i più.
Ecco perché era la caccia dei contadini: poca spesa, tanta resa!
Ora le campagne sono purtroppo spopolate da decenni, ma in anni recenti tale forma di caccia pare sia ritornata in auge.
Un’altra mattina, eravamo già in dicembre inoltrato, un amico cacciatore si apposta ad un altro rinomato pero. L’aria è gelida ed il cielo nuvoloso.
L’alba lo vede già pronto. Si fa giorno ed arrivano i primi uccelli.
Sono affamati e si rimpinzano avidamente. L’albero ora è spoglio, e rimangono in bella vista i grappoli rinsecchiti. I frutti rimasti, benché avvizziti, attirano irresistibilmente. Nel silenzio della campagna, rotto soltanto dagli spari, inizia una musica dolce, lieve, delicata: comincia a nevicare.
I primi fiocchi si posano sulle foglie morte e accartocciate, sciogliendosi in fretta. Il cielo è scuro, livido. I fiocchi s’infittiscono fino a diventare una coltre e scendono copiosi, veloci, grandi. Tutto s’imbianca in pochi attimi, in un silenzio irreale, ovattato.
Il leggero e sottile fruscio dei fiocchi sempre più fitti e la neve, che cresce a vista d’occhio, creando un paesaggio fiabesco. Tutto si è acchetato.
Solo i richiami delle cesene “Quiii, quii,” sembrano avvertire le sorelle, “Venite, c’è da mangiare, i tordi ed i merli sono stati magnanimi, ci hanno lasciato qualcosa. Molto meglio queste perine, seppur striminzite, delle bacche di rosa canina, che ci si piantano nello stomaco”.
Arrivano fra un turbinio di fiocchi, avide si posano sulla grande pianta spoglia e cadono colpite dal piombo, insaccandosi nella coltre immacolata.
La nevicata non accenna a diminuire, anzi s’infittisce sempre più.
Ora tutto è di un bianco abbacinante, fantastico.
Già ce n’è un palmo, perché continuare nell’assurdo massacro? Non è più caccia. Ora basta. Metti fine alla carneficina. La stagione è ormai finita, lascia che si sazino in santa pace… Ma non sempre va così, per fortuna; tante sono le mattine e talvolta le annate di passo scarso. Allora queste piante ospitali rimangono deserte, senza visitatori affamati, se non qualche rara cincia a pizzicarne avidamente i frutti.
Roberto Randi
Tratto dal Libro:
Nel sommesso palpito del vivere vedi scheda