Si era alla fine di settembre, quando il caldo estivo cede il passo, specie di notte, soprattutto in altura, ai primi irrigidimenti che preludiano all’autunno e, insieme alla stagione rossa, al passo. Per chi ama la caccia con il cane da ferma questi sono i giorni di attesa, paragonabili all’ultimo quarto d’ora a sipario chiuso per l’appassionato di teatro. Il tempo non passa mai, si attendono le Regine sperando in un ottobre generoso a rompere il ghiaccio con i primi arrivi prima delle buttate novembrine. Ma nel frattempo c’è da aspettare.
E allora montagna, e allora i sogni e la fantasia di correr loro dietro. Quel giorno aveva scelto una vetta in forte pendenza, arida di soddisfazioni nel recente, ricca di selvaggina in un passato remoto. Come mille altre vette italiane, del resto. Sta di fatto che, a quanto aveva sentito, un drappello di starne lasciate libere nelle colline sottostanti si era arrampicato fin lassù, a quota 1600, sfidando il falcone e le ombre fredde della notte pur di sfuggire al caldo diurno del piombo. Per controllare, ovviamente, c’era da scarpinare il giusto, visto che il monte in questione – a imbuto rovesciato, come un utero – era vasto e scosceso.
Arrivò fin dove si poteva con il fuoristrada, e scese dall’auto che la notte impallidiva. Cani al guinzaglio, percorse un centinaio di metri guadagnando quota, mentre sotto di lui altre macchine arrancavano lungo la mulattiera. L’alba venne senza che il canto rompesse la quiete: del resto ci avevano già pensato sportelli, vociare e uggiolii impazienti di cani non avvezzi a quel tipo di caccia.
Uno sguardo verso il basso, con la luce che cresceva di intensità, e capì di averci azzeccato: si trattava infatti di una compagnia “tutta caccia” con cani al seguito, utilizzati da scaccio e da riporto. Era brava gente, ma anche gente che sparava a tutto: dall’allodola alla lepre, camminando a rastrello lungo le coste, con i cani pochi metri davanti agli uomini a “pisticchiare” un po’ qua un po’ là, allo scopo di muovere la selvaggina. Non era ovviamente quella la sua caccia, ma non poteva neanche impedire di praticarla a chi invece ne era appassionato.
Dopo un breve cenno di saluto, appurato di essere il solo cacciatore specialista al momento all’opera, sciolse la sua coppia di ausiliari. Insieme a Cicero, setter inglese biancoarancio che aveva da poco passato i sei anni, c’era Aria, maestosa pointer bianconera prossima a compiere tre anni d’età. La brezza leggera era di tramontana, il che rendeva ideali le condizioni per cacciare in quelle prime ore del mattino: i due attaccarono la montagna con una veemenza impressionante, scambiandosi il terreno con regolarità ma anche con una sana competizione al limite dell’esasperato. Tre, cinque, settecento metri di lacet erano la regola per questi due diavoli di montagna, nel pieno delle forze e in uno stato di allenamento ottimale. Più volte, grazie alle condizioni di olfattazione particolarmente eccellenti, per frenesia e paura di sbagliare si ritrovarono in ferma e consenso su selvatici di nulla utilità, ma che avrebbero fatto tanto comodo alla comitiva di cacciatori tuttofare. Finché, dopo circa un’ora e mezzo di caccia, Cicero entrò in ferma in tipico stile di razza, ad indicare che no, questa volta non si stava scherzando. Aria, dal canto suo, si pietrificò di consenso a trenta metri dal collega, in mezzo al mare di falasco.
Non appena giunto sul biancoarancio, l’uomo cercò di piazzarsi nel migliore dei modi: ma la soluzione non era affatto scontata. Il setter, infatti, “pippava” l’aria con la bocca e aveva alzato notevolmente la testa dalla linea di ferma, a segnalare che i selvatici là davanti erano in movimento e per nulla disposti a farsi sorprendere senza prima lottare. Ad uno schiocco delle dita del cacciatore, Cicero diede inizio ad una guidata lunga ed emozionante, con sbandate, gattonamenti, ferme e di nuovo rotture. Così per oltre cento metri, a salire, sempre sopra, di taglio o per direttissima, ma sempre verso l’alto. Cinquant’anni prima, su quella stessa montagna, al termine di un’azione come quella una brigata di cotorne avrebbe squarciato il silenzio con il suo frullo metallico; ma i tempi erano cambiati, e questa volta, affacciatosi sei o sette metri davanti al cane, l’uomo riuscì a intravedere due o tre testoline spuntare dal falasco un attimo prima che il volo di starne partisse all’unisono. Con il primo dei suoi due colpi riuscì ad abbatterne una, mentre il secondo se lo portò via la tramontana. Ma le superstiti, sette in tutto, si aprirono anziché restare unite, volando in tutte le direzioni e segnando, di fatto, il proprio destino.
Una volta diviso, infatti, il branco di starne è vulnerabile e alla mercé dell’avidità umana. Il cacciatore irrispettoso e dotato di buona gamba può facilmente, agendo di fretta, eliminare uno ad uno tutti i componenti della brigata, sorprendendoli prima che si riuniscano di nuovo. Quel giorno, tuttavia, le starne erano state fortunate, poiché avevano deciso di aprirsi a ventaglio davanti a chi le rispettava. Pertanto, mentre intorno era tutto un canto e i cani sembravano impazziti dall’eccitazione, lui si complimentò ancora con Cicero per l’azione mozzafiato ed il riporto impeccabile, dopodiché cominciò a ridiscendere il monte in direzione di un altro versante, una facciata esposta a sud-est che spesso dava rifugio a qualche quaglia di passo tardivo, anche detto “ricasco”.
I due ausiliari, richiamati e indirizzati verso la nuova area della montagna, sembravano non toccare terra in quella distesa di falasco, che conquistavano metro dopo metro con muscoli, tendini e cervello. Uno spettacolo unico, la cerca degli inglesi in montagna: istinto, genio e follia che si mescolano alla perfezione poiché messi nelle migliori condizioni di esprimersi.
Mentre muoveva nella direzione prescelta sentiva, di quando in quando, gli spari degli scacciatori sotto di lui. Cacciavano e salivano e, in cuor suo, sperò con tutte le forze che non trovassero quelle starne sparpagliate. Sarebbe stato fin troppo facile, per un gruppo come quello, sterminarle. Immerso in quel ragionamento speranzoso nei confronti delle “sue” starne, quasi investì i due cani fermi lungo uno stradello di montagna. Si avvide della scena, infatti, quando non era giunto che a una decina di metri dagli ausiliari. Ancora una volta era Cicero a guidare le danze, mentre Aria se ne stava immobile in religioso consenso, pochi passi dietro al professore. Si abbassò di qualche metro sotto ai cani, fermi in costa, dopodiché passò loro avanti seguendo la direzione dei due nasi. Ma non volò nulla. Perplesso, tornò sui propri passi e si mise dietro agli ausiliari, che non guidavano. Allora si avvicinò ad Aria, e la invitò a rompere il consenso. Timidamente, consapevole del grave torto che stava facendo al suo collega, la pointer mosse il primo passo, poi il secondo, il terzo e via di seguito. Giunta al fianco di Cicero, fermò d’autorità anche lei. Un’ispirazione gli fece aprire la doppietta e cambiare le cartucce, inserendone due di piombo fino. Dopodiché fece guidare ancora Aria, che a quel punto si produsse in uno strappo mozzafiato, seguito da una breve ferma e poi da un altro strappo, che costrinse la quaglia ad involarsi. Un tiro ben accompagnato e l’africanella giaceva nelle sue mani, riportata dalla pointer in punta di labbra.
La cacciata proseguì senza altre emozioni fino a mattino inoltrato. Erano infatti quasi le 11 quando decise che era il caso di girare i tacchi e tagliare verso il fuoristrada. Gli scacciatori non avevano fatto più molto rumore, segno che le starne non erano – forse – state ritrovate. Il tragitto da compiere per arrivare alla macchina era ancora lungo: non meno di cinque o forse sei chilometri, che in montagna possono significare anche molto tempo. I cani, malgrado il caldo sopravvenuto, non accennavano a mollare di un niente. Destra-sinistra, velocità costante, ad incrociarsi con spettacolare senso del selvatico e della prestazione. Ogni tanto una puntata in basso, verso una macchia di faggi, oppure in alto sotto a certi scogli un tempo casa delle coturnici: sempre in movimento, sempre al galoppo serrato. Uno spettacolo indescrivibile. E proprio al culmine di questo spettacolo, ancora Cicero entrò in emanazione prima di sdraiarsi in ferma, nell’oceano di falasco, di tre quarti sporto verso il basso.
Come noto, in questi casi il selvatico ha un vantaggio in più e, pertanto, è bene muoversi con rapidità ma anche con piede leggerissimo. Quasi piegato in due, l’uomo scese più in basso del cane in ferma e della sua collega di consenso, compì un largo giro e si piazzò; era proprio quasi di fronte al naso di Cicero, a una trentina di metri da lui. Di nuovo una starna si manifestò davanti alle canne della sua doppietta, evidentemente una sbrancata che non si era ancora riunita al gruppo. Al primo sparo notò in maniera distinta le zampe dell’animale che ricadevano inerti a penzoloni, mentre il volo continuava. Il secondo colpo sembrò non carpire neanche una penna alla grigia, che infatti proseguì la sua discesa oltre una macchia di faggi, scomparendo alla sua vista.
Rammaricato per l’effetto negativo prodotto dalla prima cartuccia, ma allo stesso tempo certo di aver fatto centro almeno una volta, l’uomo si diede a scendere per cercare di ritrovare la starna ferita. Percorse oltre duecento metri in basso sino ad incontrare i primi faggi, con i cani sempre in gran movimento. Ad un certo punto, stavano ancora scendendo, Aria sembrò letteralmente sbattere contro una parete invisibile, e passò dai 20-25 chilometri orari di velocità all’immobilità assoluta, quasi rinculando. Nessun pneumatico, nessun freno da Formula 1 sarebbe mai in grado di produrre un arresto con una pari rapidità. Cicero, dopo altri due lacet impressionanti, si avvide infine della cagna in ferma e si produsse in un consenso espressivo, a una cinquantina di metri di distanza. La stasi della pointer era quanto di più nobile, superbo ed elettrizzante per un appassionato di cinofilia venatoria. Tutto contento e sollevato per aver ritrovato la starna ferita, si avvicinò alla sua Aria con quel sano mix di calma, soddisfazione e stanchezza che una giornata del genere comportava, specialmente in quella fase conclusiva della cacciata. Facile quindi immaginare come ci rimase quando, giunto sulla bianconera, anziché assistere al voletto inutile della starna già colpita si vide schizzare davanti un leprone di montagna che erano le sette bellezze! La sorpresa, per sua fortuna, durò un istante: il tempo di ritrovare la presenza di spirito e la lepre era a terra, fermata di prima canna.
Custodito e riposto nella cacciatora quel magnifico selvatico, di dimensioni più che ragguardevoli – intorno ai cinque chili di peso –, si sentì stanco e sedette a riposare, riflettendo sulla giornata così ricca di incontri, piena di emozioni e soprattutto di scene venatorie stratosferiche. Ferme e consensi, dopo i primi minuti di agitazione, si erano concretizzati in azioni funzionali all’atto venatorio, senza fronzoli e sbavature, alla faccia di chi parla degli inglesi come di cani coreografici, sì, d’accordo, ma mai votati al carniere. Aveva assistito a quattro magnifiche azioni di caccia, che lo avevano messo sempre nelle condizioni ideali per abbattere i selvatici. In tre di quei quattro casi c’era riuscito con tutti i crismi, mentre in un’occasione… Con la coda dell’occhio si avvide dell’arrivo di Cicero alla sua sinistra: il professore portava in bocca la starna ferita. Senza più parole, si prodigò in complimenti e abbracci ai suoi strepitosi ausiliari, compagni d’avventura e di vita, portatori di Emozioni forse incomprensibili ai più, ma che per lui erano il sale stesso dell’esistenza.
Dopo aver condiviso con i suoi amici la colazione che si era portato dietro, riprese il cammino verso l’automobile con il fardello della lepre e la consistenza, leggera ma gratificante, delle altre prede di quell’uscita indimenticabile. Pensava a molte cose, lungo il cammino, con i cani - finalmente domati dal caldo e dal cibo - che lo seguivano al piede. Pensava alle azioni, riviveva le loro conclusioni, chiudeva gli occhi e vedeva i suoi ausiliari in ferma, oppure impegnati in uno dei tanti lacet incrociati che lo avevano esaltato per l’intera giornata, e che per molti cosiddetti “intenditori” significherebbero follia mentre per lui erano genialità, istinto e null’altro. Ma soprattutto pensava alla casualità della caccia: aveva colpito una starna senza abbatterla e, per andare a ricercarla, si era imbattuto nella lepre che ora tornava a casa con lui per la gioia di suo padre e degli amici, che presto avrebbero mangiato insieme a loro le pappardelle… Avesse sparato meglio a quel selvatico, l’amica orecchiona avrebbe avuto salva la pelle, perché mai si sarebbero spinti fin laggiù alla ricerca della grigia ferita. Era quella l’ennesima prova provata che fiato, preparazione fisica, qualità dei cani da caccia, genio, follia; tutte queste cose insieme non bastano senza il più importante dei fattori, come ben sanno i cacciatori amanti della montagna.
Daniele Ubaldi
|