Erano gli anni dell'abbondanza della selvaggina, quando c'erano migratori dappertutto e i nonni si accompagnavano con i più giovani e futuri amanti dell'arte venatoria. Avere come compagni di caccia nipoti e figli ancora adolescenti è stato sempre un problema per nonni e padri, responsabili del pericolo cui si va incontro quando i consanguinei quando i consanguinei chiedono di tenere il fucile il fucile tra le mani e tirare qualche colpo.
Ma Albertino non volle capire ragioni al diniego del nonno che fu costretto a trascinarlo con sé. Quel mattino l'avo avrebbe dovuto tirare a qualche quaglia che aveva sentito trillare fra le stoppie, ma era inquietato dalla presenza di Albertino che voleva il fucile ad ogni costo. Il nonno fece di tutto per negare il possesso dell'arma al fanciullo poco più che decenne. Ma quando il nipote scoppiò in un pianto disperato, l'avo si arrese e dopo aver tolto una cartuccia dalla camera di scoppio di una doppietta, il nipotino era pronto sotto la ferma del cane, al primo sparo, che sarebbe stato l'ultimo, fino a quando, maggiorenne, avrebbe ottenuto il regolare porto d'arma.
Il nonno lo sorvegliava con tutte le precauzioni del caso, e quando la quaglia partì, Albertino con un'imbracciata un po' scomposta, sparò. Colpì il selvatico con qualche pallino. La quaglia punta dal piombo si fermò ad una ventina di metri fra le stoppie ottobrine e più volte tentò e ritentò la fuga sfuggendo alla cattura. Per quel giorno era fatta e per Albertino, anche se un po' deluso dalla circostanza, era la genesi di una passione che di lì a qualche lustro sarebbe esplosa in tutta la sua virulenza. Quella quaglia sopravvisse anche se fu costretta a sopportare qualche pallino incarnatosi fra gli ossicini del'ala. Doveva però ad ogni costo affrontare la migrazione di ritorno che per le consimili si era conclusa a fine settembre.
Ad ottobre, con i freddi incipienti, era costretta a migrare in solitudine verso l'Africa. Intanto l'ala colpita guariva di giorno in giorno. L'uccello si attivava in voletti di prova, fino a quando decise di scegliere la sera della partenza. Avrebbe approfittato di un crepuscolo tranquillo, appena vezzeggiato dal soffio tenue del maestrale. E partì verso l'Africa abbozzando di tanto in tanto il suo caratteristico trillo, a cui non seguiva alcuna risposta. Era sola in volo, terribilmente sola. Avrebbe attraversato il Mediterraneo per l'intera nottata; eppure, nel cuore delle tenebre, avvertì il ritorno del dolore all'ala, ma non si scoraggiò.
Percepì le luci di una imbarcazione sulla quale riposò per qualche minuto, in vista dell'ultimo tratto migratorio che l'avrebbe unita alle sorelle. E ricevette dal barcaiolo rispetto ed attenzione fino a quando con un trillo lungo e ripetuto lanciò l'addio all'uomo di mare che la salutò togliendosi il cappello verso il mistero stesso della migrazione. Si incontrò con qualche tordo bottaccio di entrata che ironicamente l'apostrofò zirlando di continuo come a rimproverarla per quel ritardo da ultimo amore. Ai primi albori antelucani intravide le coste occidentali dell'Africa che si stagliavano sfumate dalla magnifica aurora nascente. Percepì appena qualche voce amica e si rincuorò pensando alle difficoltà che aveva superato. Ormai era lì accolta da un festo e continuo mao – mao e tri – tri amichevole e confortante. Era fatta.
Dormì sulla spiaggia africana per l'intera giornata, liberandosi dalle immagini nemiche che l'avevano perseguitata. L'ala non era più dolorant, alle ggressionie. Quella quaglia sfuggita alla pressione venatoria, era guarita dalla lieve ferita che le aveva procurato Albertino; era sfuggita alle fauci delle volpi, alle aggressioni dei falchi, alle intemperie della natura, al destino avverso, e solo ricordava, con gratitudine, il barcaiolo che nella traversata di ritorno le aveva offerto riposo. Ora si preparava agli ultimi amori d'annata per il bene della specie. Aveva vinto la sua lotta.
Domenico Gadaleta